venerdì 29 maggio 2015

LA RIESUMAZIONE DI THOMAS SANKARA

29 mag

La riesumazione di ciò che si ritiene siano i resti dell’ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara è iniziatA. Una volta riesumato potrà essere identificato formalmente – una richiesta di lunga data della famiglia e sostenitori di Thomas Sankara. Visto come il Che Guevara dell’Africa , il rivoluzionario antimperialista è stato frettolosamente sepolto con altri 12 nel colpo di stato del 1987. Il permesso di esumazione è stato negato durante il governo del suo successore, Blaise Compaore, che ha lasciato l’incarico lo scorso ottobre tra le proteste di del popolo.
Mr Compaore ha sempre negato di essere coinvolto nell’uccisione del ex leader, insistendo sul fatto che i “fatti sono noti“, e lui non ha “nulla da nascondere“. Mentre era in carica, il tribunale del Burkina Faso bloccato una richiesta della famiglia del signor Sankara perchè i suoi resti fossero riesumati. Ma il nuovo governo ad interim ha detto che alla famiglia del sig Sankara sarebbero dati i mezzi per aiutare a identificare il cadavere, secondo l’agenzia di stampa AFP.
Centinaia di persone sono andate al cimitero dove la riesumazione è avvenuta nella capitale del Burkina Faso, Ouagadougou, ma non sono stati ammessi in dalle forze di sicurezza. Miriam Sankara, la vedova dell’ex capo, ha detto alla BBC francesa a marzo che la famiglia voleva che fosse la magistratura a riesumare  il cadavere.
Chi era Thomas Sankara?
§ Un capitano dell’esercito dell’Alto Volta, una ex colonia francese in Africa occidentale
§ Leader al colpo di stato che ha spodestato il Col. Saye Zerbo come presidente nel 1982
§ ha preso il potere da Maj Jean-Baptiste Ouedraogo in una lotta di potere interna ed è diventato presidente nell’agosto 1983
§ ha adottato politiche di sinistra radicale e cercato di ridurre la corruzione del governo
§ ha cambiato il nome del paese da Alto Volta a Burkina Faso, che significa “la terra degli uomini integri
§ Ucciso in circostanze misteriose da un gruppo di soldati nell’ Ottobre 1987
«E se lo faranno, dovrà essere contestualmente nel processo giudiziario che abbiamo sempre chiesto, nel contesto di scoprire la verità e nella ricerca degli assassini del presidente Sankara“, ha detto la signora Sankara.
Suo marito è diventato presidente nel 1983, dopo una lotta di potere interna. Ha condotto il suo paese per quattro anni, fino alla sua morte, all’età di 37.
da Winnie Kamau
Kenya, Nairobi
@WinnieKamau254

lunedì 25 maggio 2015

Stati Uniti. Il più grande mercato di avorio illegale al mondo.


Il commercio dell’avorio è una delle peggiori piaghe dell’Africa responsabile della morte di 35.000 elefanti ogni anno.
Il Continente sta letteralmente perdendo il suo patrimonio naturale. Elefanti e rinoceronti sono in serio rischio di estinzione in quanto il massacro provocato dai bracconieri è superiore alla loro capacità riproduttiva. Il commercio dell’avorio è spesso collegato alle attività di gruppi terroristici come Al-Shabaab, Boko Haram e i ruandesi FDLR. Organizzano già con successo i traffici continentali di minerali, droghe, armi, vendita di organi e la tratta di esseri umani. L’avorio diventa un altro mezzo illecito dove possono trarre i fondi necessari per finanziare le loro attività eversive. Grazie alle attività bracconaggio di questi gruppi terroristici africani la maggioranza dei profitti provenienti dalla vendita illegale di avorio entrano nei circuiti internazionali del terrorismo e dei network della criminalità organizzata. È sempre difficile quantificare il giro d’affari del mercato nero ma, a livello mondiale si stima che il traffico di avorio genera annualmente circa 19 miliardi di dollari di profitti.
Il primo responsabile del commercio internazionale di avorio è la Cina con 42 tonnellate comprate ogni anno. La maggior parte dell’avorio africano arriva in Cina sotto forma di materiale grezzo che viene successivamente lavorato nella florida industria artigianale cinese. Diverse organizzazioni occidentali cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale e di lottare contro questo crimine. La maggioranza dei paesi occidentali hanno parzialmente vietato la vendita di avorio fin dagli anni Novanta e fanno pressioni affinché le leggi internazionali contro il commercio illegale dell’avorio vengano rafforzate. In prima posizione in questa nobile guerra si trovano gli Stati Uniti. Nel luglio 2014 il presidente Barak Obama ha firmato un Ordine Esecutivo che obbliga il paese ad aumentare gli sforzi contro i trafficanti mondiali che riducono i benefici economici, sociali, turistici ed ambientali di molti paesi africani.
La lotta dell’Amministrazione Obama contro il commercio illegale di avorio non è certo una novità per la Casa Bianca. Fin dal 1989 gli Stati Uniti sono stati tra i primi paesi occidentali a proibire parzialmente in commercio dell’avorio. All’epoca il Congresso approvò il African Elephants Conservation Act con l’intento di limitare il commercio di oggetti in avorio ad eccezione dei pezzi di artigianato antichi. Venti anni fa gli Stati Uniti hanno firmato i trattati internazionali contro il commercio dell’avorio del CITES (Convenzione sul Commercio Internazionale delle Specie in via di Estinzione). Nel febbraio 2014 l’Ordine Presidenziale Diretto n. 210 ha rinforzato il divieto sull’avorio esclusi gli oggetti di antiquariato e quelli che sono stati importati nel paese prima del 26 febbraio 1976. Come normale in un Mondo Unilaterale anche per l’avorio i media occidentali ci propongono una storia semplice e lineare. Da una parte abbiamo i Bad Guys: Cina e altri paesi asiatici come Thailandia e Vietnam che commerciano in avorio causando l’estinzione degli elefanti e rinoceronti africani. Dall’altra abbiamo i Good Guys: Europa e Stati Uniti che tentano di rendere illegale il commercio e lottano contro i trafficanti internazionali.
Come al solito la Propaganda si infrange contro la Realtà. Gli Stati Uniti sono il primo mercato mondiale per l’avorio legale ed illegale. La quantità di avorio commercializzata in America supera quella commercializzata in Cina. Tra i due paesi esistono forti legami economici relativi al commercio dell’avorio. La Cina lavora la materia grezza e gli Stati Uniti importano i prodotti finiti “Made in China”. Se la Cina è il principale compratore di avorio gli Stati Uniti sono il principale consumatore mondiale. Il famoso sito di annunci economici online Craigslist vende ogni anno 15 milioni di dollari di prodotti in avorio secondo un recente rapporto redatto da International Fund for Animal Welfare (IFAW) e Wildlife Conservation Society (WCS). Il rapporto è frutto di una ricerca di prodotti in avorio venduti dal sito online durata una settimana e condotta in 28 città americane. In solo cinque giorni (dal 16 al 20 marzo 2015) 456 prodotti in avorio e 75 prodotti collegati ad animali selvaggi (quale pelle di elefante) sono stati venduti su Craigslist per un valore di un milione di dollari. Ogni anno Craigslist vende 6.600 prodotti in avorio. San Francisco e Los Angeles sono i principali mercati nazionali. La maggioranza dell’avorio venduto da Craigslist proviene dalla Cina e da altri paesi asiatici. Peter LaFontaine, un funzionario del IFAW accusa Craigslist di non fare sufficienti sforzi per interrompere la vendita online di avorio.
Purtroppo Craigslist rappresenta solo la punta del iceberg del mercato statunitense dell’avorio. In netto contrasto con la propaganda governativa l’Amministrazione Obama pone scarsa attenzione al commercio domestico di avorio nonostante che gli Stati Uniti siano il primo mercato occidentale per i prodotti asiatici. Il commercio illegale di avorio negli Stati Uniti è poco monitorato e le leggi sono inadeguate ed ambigue. Se ciò non bastasse le agenzie governative addette al monitoraggio e alla lotta dell’avorio illegale sono sotto finanziate e con un personale insufficiente. Ci sono in tutto il paese 200 agenti di sorveglianza contro il commercio illegale di avorio. Un numero irrilevante se pensiamo che una singola indagine richiede 18 mesi e coinvolge almeno 30 agenti. L’agenzia sul monitoraggio del commercio di avorio ha lo stesso personale degli anni Settanta nonostante che negli anni Novanta e Duemila il commercio in nero d’avorio sia drasticamente aumentato nel paese.
Il commercio d’avorio è un affare miliardario che accontenta tutti. La materia prima in Africa è venduta a 750 dollari al chilo. Gli oggetti lavorati in Cina sono venduti sul mercato internazionale a 1.500 dollari al chilo. I commercianti americani vendono questi oggetti a 2.500 dollari al chilo. Una zanna pesa mediamente 14 chili. Quindi su ogni esemplare abbattuto i bracconieri africani guadagnano 147.000 dollari, le ditte artigianali cinesi 249.000 dollari e i venditori americani 490.000 dollari. Secondo la recente inchiesta della IFAW, oltre 24.740 articoli in avorio e 3.209 trofei di elefanti con le due zanne incorporate sono stati venduti negli Stati Uniti tra il 2009 e il 2012. Queste cifre sono in drammatico aumento a partire dal 2013. In America comprare oggettistica in avorio è il nuovo trend mondano. Ogni mese sono venduti su aste online oggetti di avorio per una media di 2,5 milioni di dollari. L’avorio illegale entra negli Stati Uniti camuffato da avorio legale grazie alla corruzione della polizia di frontiera e alla farraginosa legislazione in materia. Gli Stati Uniti hanno proibito l’avorio proveniente da elefanti africani mentre accettano quello proveniente da elefanti asiatici. Le vendite di oggetti in avorio antichi di 100 anni o importati nel paese prima del 1976 sono considerate legali. Per i trafficanti internazionali è facilissimo far passare avorio africano per avorio asiatico e oggetti in avorio fabbricati due settimane prima come pezzi di antiquariato o oggettistica importata prima del 1976.
Di norma il governo americano permette la vendita di avorio senza certificazioni statali ad eccezione per i pezzi di antiquariato. È il venditore che garantisce l’origine del prodotto sotto la sua responsabilità giuridica. Questo rappresenta un serio problema per l’applicazione delle legge sul contrabbando di avorio. Durante le indagini su lotti di avorio illegale anche le attrezzature tecnologiche più sofisticate non riescono a determinare con esattezza se si tratta di avorio “vecchio” o di avorio proveniente da elefanti asiatici. Le uniche certificazioni sicure sono quelle prodotte in laboratorio. Visto il loro elevato costo sono fuori dalla capacità finanziaria dello stato federale. Gran parte dell’oggettistica in avorio viene dichiarata come pezzi di antiquariato tramite falsi certificati redatti da ufficiali pubblici corrotti. La corruzione porta ogni anno nelle tasche di questi ufficiali la ragguardevole cifra di 2 milioni di dollari. Nella maggioranza dei porti americani le autorità doganali non ispezionano navi sospettate di trasportare container di avorio illegale anche quando ricevono una segnalazione ufficiale. Il traffico di avorio, di prodotti legati e di animali rari non è considerato un reato maggiore e viene punito con un multa non superiore ai 100.000 dollari e la confisca del prodotto.
L’oggettistica in avorio confiscata viene rivenduta sul mercato sia a causa di agenti di polizia disonesti sia a causa dei piani di finanziamento occulto del governo americano. L’avorio come la droga serve per finanziare le attività sovversive che gli Stati Uniti compiono all’estero contro le nazioni considerate “nemiche”. Se la Cina è il primo fornitore di avorio i cacciatori americani sono i secondi. Partecipano ai safari in Africa uccidendo decine di elefanti di cui zanne sono fatte uscire dal paese tramite corruzione e vendute al mercato nero in America. La legge statunitense prevede che se un cittadino americano uccide personalmente un elefante in una riserva di caccia a pagamento ha il diritto di importare nel paese i trofei, comprese le zanne. Questa protezione giuridica è garantita grazie allo statuto sociale. I cacciatori di elefanti americani appartengono alla “Society” i ricchi. Quel 1% che comanda nella più grande democrazia occidentale. In Uganda la caccia nelle riserve è gestita da un italiano, ex militare e mercenario, che gode della protezione delle alte gerarchie dell’esercito. Parte delle quote per partecipare ad una battuta di caccia in Uganda pagate dai cacciatori americani (circa 8.000 dollari) serve per corrompere i funzionari della dogana ugandese per permettere l’esportazione dell’avorio. La parte corrisposta ai generali assicura una esportazione senza problemi e difficoltà.
Il commercio illegale di avorio è un problema interno agli Stati Uniti nonostante che i vari governi abbiano sempre accusato altri paesi e fanno a gara per dimostrare il loro impegno contro il traffico internazionale di avorio”, accusa Elizabeth Bennett vice presidente della associazione in difesa delle razze animali in via di estinzione: Wildlife Conservation Society. Le nuove misure legislative che sono sotto analisi del Congresso risultano inefficaci prima ancora che vengano approvate in quanto non tengono in considerazione l’obbligo dello Stato di certificare l’origine dell’oggettistica in avorio. Anche per le importazioni il certificato di origine CITES non è obbligatorio. Bastano delle semplice autocertificazioni.
Le certificazioni di origine dell’avorio sono facili da falsificare come quelle dei minerali provenienti dalla zone di conflitto. Questa facilità (ben nota ai potenti e ai politici) trasforma tutte le leggi che non prevedono un divieto assoluto di commercializzazione dell’avorio in pura propaganda politica come la recente legge varata dal Parlamento Europeo sui minerali di guerra, venduta agli ignari cittadini europei come una conquista storica. In realtà un cinico inganno compiuto da parlamentari europei in totale mala fede impegnati ad accrescere la propria popolarità per mantenere gli ingiustificati e vergognosi stipendi offerti dal Parlamento Europeo.
Tutte le leggi su avorio, traffico di esseri umani e di minerali di guerra che non prendono in considerazione il nocciolo del problema (gli interessi di governi e multinazionali) sono destinate a fallire come la legge sui minerali illegali dal Congo: la Frank-Dott Act. Anche la decisione presa lo scorso febbraio da Pechino di attuare una moratoria di un anno sugli acquisti di avorio dall’Africa sembra essere un gesto simbolico nei migliori dei casi o un atto di pura propaganda. “In tutti i modi rappresenta un importante ammissione da parte del governo cinese delle sue responsabilità sul commercio illegale dell’avorio. La Cina per decenni ha negato di essere tra i responsabili dell’estinzione di elefanti e rinoceronti in Africa”, afferma Sammi Li, la portavoce di TRAFFIC, associazione di monitoraggio sul traffico internazionale di animali.
Le organizzazioni internazionali in difesa della natura e coraggiosi giornalisti free lance stanno progressivamente spingendo l’opinione pubblica a premere sui propri governi affinché rinforzino le leggi contro il traffico d’avorio. Stanno inoltre aumentare il grado di responsabilità dei consumatori. Per paura di pubblicità negativa molti holding del commercio online come eBay o Etsy si dichiarano pronti a cooperare per rafforzare le leggi anti commercio di avorio e per ridurre il traffico connesso alle vendite nelle loro piattaforme. Anche Craingslist ha promesso di cooperare. Purtroppo queste promesse nascondono gli stessi trucchi delle multinazionali occidentali minerarie che assicurano di comprare minerali solo in paesi africani liberi da conflitti. Una vergognosa bugia in quanto il 69% della produzione di minerali preziosi proviene da: Sudan, Congo e Repubblica Centro Africana, tutti paesi afflitti da guerre civili. Nel caso dell’avorio le holding delle vendite online sono estremamente coscienti di quanto sia difficile regolare il mercato di questo genere di lusso. Per un venditore di prodotti in avorio è sufficiente eliminare la parola “avorio” dalla descrizione dell’articolo in vendita online. Ebay e le altre holding non andranno mai ad indagare sul prodotto offerto, limitandosi a riscuotere la provvigione sulle vendite. Nessuno saprà di cosa realmente si tratti ad eccezione dei compratori veramente interessati. Secondo Sammi Li ogni compra vendita di oggettistica in avorio deve essere resa illegale, senza eccezioni e i venditori e gli acquirenti perseguiti a livello giudiziario e severamente condannati. Solo cosi’ si potrà porre fine al genocidio dei pachidermi africani. Ogni altra mezza misura non serve a nulla.
I capi di stato africani e alcune compagnie del commercio internazionale si sono recentemente riuniti in Congo Brazzaville per una conferenza durata quattro giorni e concentrata sulla guerra al bracconaggio e alla vendita di avorio in Africa. L’evento si è focalizzato su come sviluppare una strategia tutta africana e un piano di azione comune per combattere il commercio illegale delle risorse naturali e della fauna continentale. “I capi di stato africani sembrano veramente intenzionati a combattere il traffico d’avorio. Il fatto che molti paesi africani si sono riuniti nel tentativo di trovare soluzioni adeguate e per inserire nelle loro agende politiche la lotta contro il traffico d’avorio è la più chiara dimostrazione della loro buona volontà. Penso che questa conferenza rappresenti il punto di non ritorno per la protezione della natura selvaggia in Africa. In molti paesi come il Kenya o l’Etiopia possiamo notare dei reali cambiamenti in positivo nella lotta contro il traffico d’avorio”, dichiara Charly Facheux vice presidente della Conservation for the African Wildlife Foundation.
Il paese africano all’avanguardia nella lotta contro il traffico d’avorio è il Botswana, che ha imposto un quasi completo divieto di cacciare gli elefanti a partire dal gennaio 2014. La decisione è scaturita dopo lo scandalo sofferto nel 2012 che ha causato una grave pubblicità negativa al paese dove l’industria turistica è importante quanto quella dei diamanti. All’epoca la caccia agli elefanti nel paese interessò le prime pagine dei giornali di tutto il mondo a causa della battuta di caccia fatta dal re di Spagna Juan Carlos durante il periodo più difficile della crisi economica nel suo paese. Una fotografia con lui ritratto in posa davanti ad un elefante abbattuto scatenò la condanna dell’opinione pubblica mondiale nonostante che le compagnie di safari si affrettarono ad affermare che la caccia era controllata e contribuiva ai piani di conservazione della specie.
La polizia e l’esercito del Botswana stanno realmente combattendo i trafficanti d’avorio. Il paese in soli due anni è diventato il santuario di centinaia di migliaia di elefanti che di fatto sono divenuti dei rifugiati politici essendo fuggiti dai paesi vicini dove sono cacciati senza pietà. Dopo 100 ore di sorveglianza aerea, Mike Chase, co-fondatore di Elephant Without Borders ha calcolato che attualmente in Botswana vivono 130.000 elefanti. La popolazione totale in Africa è stimata a 470.000 esemplari. “Questi animali sono estremamente intelligenti. Quando vengono disturbati nei vicini paesi si spostano in Botswana perché conoscono che qui sono protetti e possono vivere al sicuro dai bracconieri”, afferma Chase. Il Ministro dell’Ambiente Tshekedi Khama è determinato a mantenere il record del Botswana di primo paese africano protettore dei pachidermi. “Gli elefanti troveranno sempre un rifugio nel nostro paese e noi continueremo ad assisterli poiché se non salvaguardiamo noi le nostre specie nessuno potrà farlo al nostro posto” afferma il ministro Khama.

Fulvio Beltrami
Uganda, Kampala
@Fulviobeltrami

Burundi, iniziano gli scontri a Bujumbura



Africa

SI parla di massacri, mentre oscura la sorte di Godefroid Niyombare. E' il preludio alla guerra civile?

A protester runs in front of a burning barricade during a protest against Burundi President Pierre Nkurunziza and his bid for a third term in Bujumbura
Venerdì 22 maggio 2015 nella capitale del Burundi, Bujumbura, si sono verificati scontri armati nei quartieri di Mutakura e Cibitoke tra la popolazione e reparti della polizia. Gli scontri, iniziati alle prime ore del mattino, sono durati fino a tarda serata. Secondo testimonianze oculari la polizia e decine di terroristi ruandesi FDLR con indosso uniformi della polizia hanno attaccato i civili con l’obiettivo di porre fine alla resistenza popolare e massacrare gli attivisti assieme alle loro famiglie. I quartieri di Mutakura e Cibitoke sono noti per essere a maggioranza tutsi. I combattimenti con utilizzo di armi automatiche e mitragliatrici pesanti sono avvenuti  casa per casa. La polizia e i terroristi ruandesi sono stati sconfitti nella serata grazie all’intervento di milizie popolari provenienti dai vicini quartieri di Kinama e Kamenge (quartiere famoso in quanto luogo del triplice assassinio ordinato dal governo delle tre suore italiane avvenuto nel settembre 2014). Il bilancio ufficiale è di due morti tra la polizia, ma secondo quanto riportato da testimoni oculari il bilancio da entrambe le parti sarebbe altissimo, donne e bambini compresi.
L’intervento delle milizie popolari di neonata costituzione di Kinama e Kamenge è politicamente significativo in quanto questi due quartieri (a maggioranza hutu) sono finora stati considerati i feudi e i serbatoi di voti del CNDD-FDD e del presidente Nkurunziza. La battaglia di Mutakura e Cibitoke dimostra che la popolazione rifiuta la contrapposizione etnica tutsi-hutu ma è unita contro il regime. Dimostra anche che il CNDD-FDD sta perdendo significative fette di elettorato. I quattro quartieri: Mutakura, Cibitoke, Kinama e Kamenge, sono ora di fatto zone off limits per il governo, controllate da non ben definite ‘milizie di auto difesa popolare’. La notizia è stata confermata da fonti diplomatiche occidentali che affermano che di fatto la guerra civile nel Paese sembra iniziata.
Gli scontri nei quartieri rappresentano il fatto più eclatante della crisi burundese. Nonostante la recente vittoria sul tentativo rivoluzionario appoggiato dall’esercito, l’opposizione popolare al presidente Nkurunziza sembra non affievolirsi così come la determinazione del presidente, ex criminale di guerra, a mantenere il potere. Nel week-end si è assistito ad una escalation della crisi ormai avviata allo scontro militare. Venerdì, oltre alla battaglia avvenuta nei quartieri di Mutakura e Cibitoke, una manifestazione popolare è stata dispersa nella capitale dalla polizia che ha sparato sulla folla: bilancio 2 morti e 18 feriti.
Squadroni della morte composti da miliziani Imbonerakure e terroristi ruandesi FDLR con l’appoggio della polizia stanno tentando di massacrare gli attivisti più importanti della resistenza popolare assieme alle loro famiglie. La maggioranza di questi attivisti è di etnia hutu. Ad ogni manifestante o rappresentante della società civile brutalmente assassinato corrisponde un poliziotto trucidato con la sua famiglia ad opera di non ben definiti gruppi armati che si definiscono “la Resistenza”. Questi gruppi sono autori anche di varie imboscate e scontri a fuoco che stanno avvenendo in tutto il Paese. Sia essi che le forze lealiste hanno redatto liste della morte ed abbattono le vittime con l’antica ma efficace tecnica regionale “A’ morcheaux” (a pezzi) utilizzando i machete, con l’evidente obiettivo di risparmiare le preziose munizioni. I massacri non raggiungono però il livello necessario per dichiarare che un genocidio sia in atto nel Paese, impedendo agli eserciti ugandese e ruandese di intervenire sotto copertura giuridica internazionale.
Sospetti gravano su Uganda e Rwanda di organizzare questi gruppi armati della “Resistenza” nel tentativo di far cadere il regime evitando una invasione militare diretta, giustificabile solo dinnanzi ad un genocidio, che per fortuna per il momento stenta a verificarsi. Nel Paese stanno entrando armi leggere e pesanti a tutto spiano, sia dalla frontiera con il Congo sia da quella ruandese. Le armi vengono distribuite alla parte più determinata dei civili che si è schierata da parte dell’opposizione o del governo. Il governo è seriamente preoccupato del proliferare di armi tra i civili in quanto nei passati anni almeno 5.000 ex guerriglieri impiegati dal CNDD-FDD durante la guerra civile (1993-2004) non sono stati assorbiti nell’esercito o nella polizia per problemi di budget. Sono stati semplicemente dismessi. Ora circolano tra la popolazione e molti di essi nutrono odio e rancore verso un partito per cui hanno combattuto sacrificando i migliori anni della loro gioventù. Un partito che, giunto al potere, li ha cinicamente abbandonati al destino di disoccupazione cronica e degradante povertà. Molti di essi stano passando dalla parte della guerriglia hutu di opposizione del Fronte Nazionale di Liberazione FNL.
Rimane avvolta nel mistero la sorte del leader dell’ammutinamento delle forze armate, il Generale Godefroid Niyombare. Il governo afferma che è stato arrestato mentre stava fuggendo un giorno dopo che il presidente Nkurunziza riprese il controllo del Paese. L’opposizione afferma che è a piede libero nascosto all’interno del Paese con 200 soldati a lui fedeli. Starebbe organizzando la resistenza armata. Difficile comprendere la verità anche se nessun comunicato da parte del Generale Niyombare è stato emesso dopo la sua vera o presunta cattura. Potrebbe trattarsi di un mito che tutti i movimenti rivoluzionari necessitano per galvanizzare la popolazione in rivolta.
L’Unione Africana ha chiarito che ogni intervento militare straniero è giustificabile solo a prevenzione di un genocidio. Fonti diplomatiche avvertono che, sottobanco, l’istituzione africana avrebbe chiesto al presidente ugandese Yoweri Museveni di ristabilire la democrazia in Burundi utilizzando ogni mezzo che riterrà adeguato alla situazione. Esisterebbero divergenze sul modus operandi tra Kigali e Kampala. Il Rwanda sta addestrando qualche centinaio di tutsi burundesi per formare una forza di invasione – liberazione come avvenne nel 1991 proprio in Rwanda. L’Uganda avverte che questa forza può essere solo di supporto complementare e non un fattore decisivo in quanto questo dovrebbe essere rappresentato dalla guerriglia hutu guidata dal FNL. Il presidente ugandese Museveni ha deciso, per il bene del Burundi e della regione, che la forza di liberazione deve essere composta per la maggioranza da hutu e il prossimo presidente un Hutu moderato capace di superare l’odio etnico istigato da Nkurunziza. Nei piani regionali di Kampala non vi è posto per un esercito di liberazione tutsi ne per un presidente tutsi. Questa strategia sembra essere coerente con la realtà sul terreno dove le due classi sociali dimostrano di cooperare politicamente e militarmente per abbattere il regime senza tentativi di egemonizzare la situazione da parte di hutu e tusti.
Le informazioni riportate non trovano conferme ufficiali presso Unione Africana, Uganda e Rwanda. Le due potenze regionali si stanno innervosendo con i media che riportano notizie di loro presunte interferenze nella politica interna del Burundi. Occorre sottolineare che le interferenze di Kampala e Kigali non solo le uniche nella regione. La Repubblica Democratica del Congo, sotto esplicito ordine del presidente Joseph Kabila, ha inviato delle compagnie della Guardia Presidenziale in supporto al presidente Nkurunziza che agiscono sotto copertura. Anche se i vertici delle forze democratiche dell’esercito sono stati decimati, il presidente non ha potuto riprendere il controllo delle forze armate. Al momento attuale la  maggior parte dell’esercito continua ad essere confinato nelle caserme. Il presidente ormai può contare solo sui mercenari congolesi, le milizie genocidarie Imbonerakure e sui terroristi ruandesi. Anche all’interno della polizia sembra che l’appoggio al regime stia per sgretolarsi. Sempre più reparti sono sospettati di simpatizzare con la popolazione se non per convinzione ideologica per paura di essere trucidati assieme alle loro famiglie. Per questo varie unità di polizia vengono mantenute inattive nelle caserme. Molti terroristi ruandesi e mercenari congolesi utilizzano per i loro atti terroristici uniformi della polizia dando cosi’ l’impressione che l’intero corpo della polizia sia compatto nella difesa del regime.
Il presidente Nkurunziza, nel tentativo di mantenere il potere, si sta alienando l’opinione pubblica internazionale causa insensati e controproducenti atti di violenza gratuita. Ha ordinato la seconda fase di repressione basata su attentati terroristici compiuti dalle FDLR. Sabato 23 maggio diverse granate sono state gettate dai terroristi ruandesi all’interno del mercato generale a Bujumbura uccidendo almeno 6 persone e ferendone una trentina. La maggioranza delle vittime sono mamme e nonne che stavano cercando di comprare le derrate alimentari (ormai scarse nella capitale) per nutrire le loro famiglie. Nello stesso giorno è iniziato il piano di eliminazione fisica dei candidati alle elezioni presidenziali. Il presidente del partito UPD Zed Feruzi è stato barbaramente assassinato da agenti dei servizi segreti assieme alla sua scorta personale. Domenica 24 maggio i suoi funerali sono stati presenziati da oltre 12.000 persone e trasformati in una condanna politica al regime. La sua morte ha costretto altri leader dell’opposizione a cercare nascondigli sicuri all’interno del Paese.
Questi inauditi atti di violenza stanno creando una determinazione all’interno del Congresso e dell’Amministrazione Obama che ora sembra non voler più rispettare gli accordi presi con la Francia riguardo alle sfere di competenza regionale che sottoporrebbero Congo e Burundi sotto la giurisdizione di Parigi. Sempre più uomini del Congresso e consiglieri della Casa Bianca stanno suggerendo al presidente di optare per l’abbattimento del regime che è ormai un pericolo per gli alleati regionali: Uganda e Rwanda. Simile posizione dovrebbe essere stata adottata contro il presidente congolese Joseph Kabila. Secondo indiscrezioni diplomatiche la Casa Bianca starebbe appoggiando il piano di Pax Ugandese. Un piano che tende a eliminare gli elementi considerati eversivi e pericolosi per la stabilità regionale. Tra questi elementi sono elencati i governi congolese, burundese e i terroristi ruandesi FDLR. Il regime dispodico del presidente sud sudanese Salva Kiir non rientra nella categoria per ovvie convenienze economiche di gestione dei giacimenti petroliferi.
La Pax Ugandese si basa sull’appoggio delle rivendicazioni democratiche che sono evidenti in Burundi ma che stanno crescendo sempre più nella Repubblica Democratica del Congo al fine di appoggiare movimenti rivoluzionari pro democrazia contro i regimi “nemici”. Una tattica largamente utilizzata dagli Stati Uniti negli anni Ottanta Novanta con il finanziamento di vari movimenti “Arancioni” comparsi nell’Europa dell’Est. Una volta stabilizzata la regione l’unione economica e le immense risorse naturali presenti, se accuratamente amministrate, apporterebbero benessere e sviluppo. Per controbilanciare le mire espansionistiche dell’Uganda gli Stati Uniti avrebbero imposto come candidato alla futura presidenza del Congo (una volta eliminato Kabila) il dottor Denis Mukwege, un congolese di etnia Shi che abita a Bukavu (Sud Kivu), direttore dell’Ospedale di Panzi e famoso a livello internazionale per il suo impegno alle cure gratuite delle donne vittime di stupri di guerra e nella lotta contro il traffico dei minerali all’est del Congo gestito da una associazione a delinquere creata tra la Famiglia Kabila e i leader terroristici FDLR.
Contattato, Mukwege non conferma l’esistenza di trattative politiche con la Casa Bianca anche se non nega le sue mire presidenziali. Vittima di minacce del governo di Kinshasa vive presso l’ospedale di Panzi protetto da agenti speciali belgi e americani. Dai colloqui avuti nel passato con Mukwege ho sempre notato posizioni politiche tese ad eliminare la promozione dell’odio etnico e la Rwandafobia. Posizioni che mirano all’integrazione sociale, politica ed economica della regione che, a suo avviso, rafforzerebbero il necessario processo di moralizzazione e ricostruzione civile ed economica del suo Paese. Il principale benefattore dell’Ospedale di Panzi è la Famiglia Clinton che a più riprese ha ospitato Mukwege nella loro residenza per colloqui privati e confidenziali. L’ultima visita è avvenuta lo scorso gennaio. Hillary Clinton ha forti possibilità di essere la candidata per i Democratici alla Presidenza.
Solo la Francia rimane ancorata nella difesa ad oltranza del regime razzial nazista di Nkurunziza. Anche l’ex potenza coloniale, il Belgio (storicamente alleata a Parigi), ha preso ufficiali distanze dal governo Nkurunziza. «Un terzo mandato presidenziale porrebbe l’esecutivo burundese in un pericoloso stato di illegittimità e non permetterebbe il rispetto degli accordi di pace di Arusha» ha affermato in un comunicato stampa il Ministro belga degli Affari Esteri. La Chiesa Cattolica (lacerata al suo interno in una segreta ma terribile lotta tra falchi e colombe) ha scelto il silenzio impedendo ai suoi rappresentanti nazionali e stranieri in Burundi di esprimersi a favore del governo o della popolazione. “Una posizione ambigua ma sempre preferibile al diretto coinvolgimento della Chiesa Cattolica nel genocidio del Rwanda nel 1994” afferma un attivista della società civile burundese contattato telefonicamente e protetto dall’anonimato.
Il Sudafrica ha iniziato manovre diplomatiche non ufficiali all’interno dell’Unione Africana per ottenere sanzioni contro il Burundi e una sua eventuale sospensione da Stato Membro. Anche se questa notizia non è stata confermata, le recenti critiche espresse dal presidente Jacob Zuma evidenziano la netta posizione di Pretoria contro l’attuale regime. Grazie agli eccessi repressivi e alle violenze gratuite attuate dal regime si sta creando una coalizione internazionale che parte dalle potenze militari economiche della regione e raggiunge l’Unione Africana e gli Stati Uniti impegnati segretamente nel progetto di normalizzazione della regione sopra descritto. Un progetto che per essere attuato con successo deve contenere le resistenze delle Nazioni Unite, Unione Europea e gli appoggi reazionari del governo francese e parte del mondo cattolico regionale ed europeo.
Secondo il parere di Luigi Elongui, attivista di tematiche africane che vive a Parigi, l’uccisione di Zedi Feruzi avrebbe vanificato un tentativo della Francia, tramite mediazione delle Nazione Unite, di portare l’opposizione e il governo al dialogo “una manovra per far accettare il terzo mandato in cambio di concessioni aleatorie riguardanti la liberazione dei prigionieri politici e la riapertura delle radio chiuse e distrutte”. La tattica del dialogo (ad esclusivo vantaggio del regime razial-nazista), promossa da alcuni settori della Chiesa Cattolica, ritorna in auge ora riproposta dalla Cellula Africana del Eliseo. Non è la prima volta che si nota una convergenza tra la politica neo colonialista francese (tesa al controllo delle risorse naturali) e alcune settori cattolici su scottanti tematiche della regione dei Grandi Laghi. L’ultima fu il tentativo attuato nel 2014 di far accettare al governo di Kigali la trasformazione dei terroristi ruandesi FDLR in partito politico e la proposta di formare assieme a loro un governo di unità nazionale. Il tentativo naufragò difronte alla intransigenza del presidente Paul Kagame che chiarì l’impossibilità di trattare con chi aveva commesso il genocidio nel 1994, nonostante misteriose riunioni ad alto livello di dirigenti FDLR avvenute a Roma. La tesi del Elongui sembra trovare conferma in alcuni ambienti politici ugandesi.
Il conflitto sociale chiaramente giocato sul piano politico e non etnico sta facendo collassare l’economia del Paese già resa fragile da dieci anni di illimitata rapina delle risorse naturali e finanziarie attuata dal presidente Nkurunziza e da una stretta cerchia di politici e militari del CNDD-FDD molti dei quali coinvolti in operazioni criminali e mafiose nell’est del Congo e nella regione dei Grandi Laghi in generale. La valuta nazionale, il Franco Burundese, è collassata dinnanzi al dollaro e all’euro spingendo la maggioranza della popolazione a comprare le valute occidentali divenute ora bene di rifugio. Esperti economici del ‘New York Times’ affermano che il sistema fiscale del Paese ha cessato di esistere e nelle casse dello Stato non ci sono fondi necessari per pagare gli stipendi dei 132.000 funzionari pubblici. La situazione catastrofica viene tenuta segreta dal governo burundese che sta disperatamente cercando un finanziamento estero per pagare i salari dei dipendenti pubblici per i prossimi quattro mesi. Un obiettivo che sembra difficile da raggiungere. Da informazioni ricevute anche la Cina si sarebbe rifiutata di concedere un prestito straordinario e qualche diplomatico del Dragone Rosso avrebbe ironicamente suggerito che i soldi vengano trovati dai conti esteri intestati al presidente e ai suoi cloni. Il mancato pagamento dei salari dei dipendenti pubblici è una spada di Damocle sul regime che non si può permettere una protesta di questo settore dove sono inclusi anche gli agenti di polizia.
Uno dei lati più oscuri e vergognosi del terrore imposto dal regime riguarda l’utilizzo dei bambini di strada. Testimonianze di bambini di strada raccolte da ‘Al-Jazeera’, rivelano che spesso sono vittime innocenti della repressione delle forze di polizia. Una denuncia confermata da Johannes Wedening, responsabile UNICEF della regione. “Abbiamo notato un allarmante aumento delle violenze commesse dalla polizia contro i bambini di strada” afferma Wedening. Attivisti della società civile denunciano che decine e decine di bambini di strada vengono abbattuti durante la notte. Approfittando del caos il governo avrebbe deciso di eliminare fisicamente questi bambini che si contano a centinaia nelle vie della capitale. Bambini orfani di genitori morti durante la guerra civile o per malattie. Il governo nega le accuse ammettendo però che 130 minori sono in carcere, arrestati per attività sovversive non ben specificate. “I manifestanti utilizzano i minori come scudi umani. Gli fanno incendiare i copertoni nelle strade ed erigere le barricate” accusa il responsabile degli “affari tribali” del governo burundese: Mohammed Bukari. Un personaggio di dubbia credibilità. Un mussulmano rinnegato dalla sua comunità in Burundi, che ha accettato di dirigere un dipartimento che ha il reale obiettivo di promuovere la supremazia razziale hutu nel paese…
Nonostante che molte accuse del governo siano evidentemente strumentali, testimoni oculari indipendenti affermano che vari minori sono coinvolti nelle manifestazioni della opposizione ed invitano i genitori e i manifestanti ad impedire la loro presenza. “Non solo per i bambini di strada ma anche per gli altri minori, il caos attuale e gli scontri di piazza sono un divertimento molto attraente. Non hanno la minima capacità di comprendere che si tratta di un gioco mortale” avverte l’attivista della società civile contattato telefonicamente.

giovedì 21 maggio 2015

Burundi: Intervista a Fulvio Beltrami – Il terzo mandato Nkurunziza. Il suicidio di una nazione.

Riportiamo l’intervista intergrale fatta dalla giornalista di Internationa Business Times Ludovica Iaccino a Fulvio Beltrami, giornalista free lance italo-ugandese esperto della regione dei Grandi Laghi. L’intervista, pubblicata parzialmente su IBTimes è precedente alla fallita rivoluzione dell’esercito democratico. Viene riportata in quanto contiene interessanti ed accurate informazioni storico culturali che facilitano la comprensione degli avvenimenti attuali in Burundi.
1) Parliamo della guerra civile in Burundi ..da cosa e’ scaturita? Chi ha ucciso chi? Quali sono stati gli accordi di pace?
L’attuale crisi in Burundi ha origine da degli accordi di pace forzati ed inappropriati per il contesto storico e culturale del paese. Di fatto la mediazione del 2000 della Nazioni Unite, Stati Uniti, Francia e Vaticano (attraverso la Comunità di Sant’Egidio) rifiutò la proposta del ex presidente Pierre Buyoya di un passaggio graduale del potere al fine di permettere alla nuova classe politica Hutu di prendere familiarità con la gestione amministrativa civile di un paese dopo anni di bush war condotta da soldati e generali semi analfabeti. Al posto di questa proposta gli accordi di Arusha (2000) previdero libere elezioni in un paese non abituato all’esercizio democratico. Il risultato fu le elezioni del 2005 dove gli elettori, (sia tutsi che hutu) hanno espresso il loro voto su basi strettamente etniche. La principale formazione guerrigliera CNDD-FDD e l’attuale presidente Pierre Nkurunziza si sono trovati al potere non per il programma politico proposto (all’epoca del tutto inesistente) ma grazie alla rivendicazione di difendere la popolazione hutu. La pace in Burundi coincide con l’epoca dei vari accordi di pace nel continente (RD Congo, RCA, Sud Sudan) che di fatto hanno posto le basi per la cronicizzazione dei conflitti (est della RDC) nuovi tremende guerre civili (RCA) e falliti esperimenti di secessioni (Sud Sudan).
Un denominatore comune di tutti questi accordi di pace è stato purtroppo il sacrificio della giustizia per far terminare le guerre civili e raggiungere un compromesso. Nessun responsabile degli orrendi crimini contro l’umanità commessi in questi paesi è stato processato. Nel caso del Burundi al ex presidente tutsi Pierre Buyoya è stata garantita l’impunità mentre il suo omologo Nkurunziza si è ritrovato alla guida del paese. Eppure entrambi sono responsabili di atroci crimini di guerra e pulizie etniche. Anche in Africa rimane valido il principio che l’assenza di giustizia non può generare una pace genuina Quindi non meravigliamoci del fiorire di mille gruppi terroristici e guerriglieri nella regione dei Grandi Laghi. Il messaggio veicolato è che la violenza paga, riamane impunita e fa accedere a porzioni di potere.
È triste constatare che solo i paesi africani sconvolti da guerre civili croniche negli anni Ottanta e Novanta in cui il conflitto è terminato con vincitori e vinti si è potuto ottenere una stabilità politica e uno sviluppo economico, vedi il Congo Brazzaville, l’Angola e il Mozambico. Gli accordi di Arusha prevedevano un’alternanza politica tra componenti tutsi e hutu. Alternanza non rispettata dall’attuale presidente. Un’alternanza deleteria per il paese poiché si basava sulla cronicizzazione della contrapposizione di due etnie (hutu e tusti) che storicamente rappresentano due classi sociali di uno stesso popolo: coltivatori ed allevatori. Per ironia della storia è stato il popolo burundese che, in questi anni di relativa pace, ha saputo superare le divergenze etniche iniziando a ragionare su convenienze politiche ed economiche senza l’aiuto della Comunità Internazionale della Comunità di Sant’Egidio o dei suoi politici al governo o all’opposizione, ancora ancorati sul confronto hutu tutsi.
2) Si parla della possibilità’ di una seconda guerra civile – cosa ne pensi? e’ possibile? Ci sono ancora tensioni etniche tra Hutu e Tutsi o queste sono fomentate dal presidente? Più’ di 40,000 Burundesi sono ormai scappati..che cosa comporta questo esodo?
Come spiegato sopra il popolo burundese ha una caratteristica innata di superare le tensioni etniche che purtroppo non è stata riscontrata nella storia del paese gemello: il Rwanda. Se prendiamo in considerazione i massacri e le pulizie etniche degli anni Cinquanta, Sessanta, Ottanta e la guerra civile iniziata nel 1993, non troviamo la presenza di piani premeditati o di intenzioni di attuare genocidi da nessuna delle due etnie rivali. Al contrario questi piani erano radicati nel regime ruandese di Juvenal Habirimana e portarono al dramma del 1994 che tutti conosciamo. Possiamo affermare che l’odio etnico in Burundi è stato sempre istigato dai vati governi (hutu o tutsi che siano stati) per logiche di potere ma non interiorizzato dalla popolazione. A più riprese i presidenti (come Melchior Ndadaye) hanno tentato di scatenare il genocidio contro la minoranza tutsi fallendo miserabilmente.
In realtà lo stesso Nkurunziza utilizza la minaccia del genocidio come arma politica ma se raggiungesse il potere attraverso il terzo mandato non lo attuerebbe sia per convenienze regionali sia per le caratteristiche culturali e sociali del popolo burundese. I matrimoni misti in Burundi sono maggiori anche dell’attuale Rwanda dove il presidente Paul Kagame afferma di aver creato una società multietnica. Il burundese medio è più legato all’appartenenza regionale o addirittura collinare e si sente leale alla comunità della collina e della regione in cui è nato e cresciuto. Una comunità composta inevitabilmente da hutu, tutsi e twa (i pigmei). Da qui nascono rivalità, gelosie e anche conflitti regionali che contrappongono le persone del comune di Ngozi a quelle di Muynga o quelle di Bujumbura. Nella stessa capitale si assiste a solidarietà o conflittualità tra le comunità dei vari quartieri. Nella seconda formazione guerrigliera che si contrappose al governo tutsi (il Fronte Nazionale di Liberazione – FNL) la componente di odio etnico era ancora più marcata rispetto a quella presente nel CNDD-FDD ai tempi della guerra civile. Erano gli estremisti HutuPower per eccellenza.
Eppure il FNL negli anni del dopo guerra ha subito un radicale cambiamento abbandonando le ideologie razziali per abbracciare il percorso democratico. Anche all’interno del CNDD-FDD il processo di abbandono del credo rivoluzionario del Manifesto Bahutu del 1957 è avvenuto ma purtroppo è stato bloccato da Nkurunziza in quanto l’odio razziale è l’unica arma a lui rimasta per conservare il potere. La nutrita opposizione dei dirigenti del CNDD-FDD e la richiesta ufficiale di non presentarsi alle elezioni sottoposta lo scorso marzo è la prova eclatante che anche all’interno del CNDD-FDD i fautori della supremazia razziale hutu sono in netta minoranza.
Occorre notare che il presidente per giocare la minaccia del genocidio ha dovuto far ricorso alle milizie paramilitari Imbonerakure (quelli che vedono lontano) che in realtà è l’ala giovanile del partito al potere. Anche sulle Imbonerakure sarebbe opportuno e doveroso fare una precisazione. Non sono nate come milizie genocidarie e non hanno coltivato l’odio atavico contro i tutsi. Le pulsioni genocidarie sono state loro inculcate durante l’anno di addestramento all’est del Congo da parte dei terroristi ruandesi delle FDLR, i responsabili dell’Olocausto Africano. Le prove dell’addestramento delle Imbonerakure da parte delle FDLR furono la principale causa della morte delle tre suore italiane avvenuta nel settembre 2014 secondo indagini di autorevoli media burundesi mai smentite dal Vaticano. In ultima analisi il presidente Nkurunziza è costretto a basarsi sulla pericolosissima alleanza politica e militare con questi terroristi ruandesi che hanno accettato di offrire i loro servizi di mercenari in cambio di un supporto finanziario e politico per una futura invasione del Rwanda.
Sono le FDLR e non gli Imbonerakure a commettere attualmente la maggioranza dei massacri contro la comunità tutsi nelle zone rurali più isolate. A Bujumbura la popolazione ha massacrato decine di questi terroristi, dandogli fuoco con i copertoni comparsi di benzina in quanto li aveva scoperti tra i ranghi della polizia. La prova finale che l’attuale crisi è politica e non etnica è la composizione dei manifestanti. La maggioranza di essi sono hutu incattiviti poiché si sentono traditi dal loro stesso partito che pretendeva di rappresentarli e di difenderli. Occorre comprendere i loro sentimenti. Per tredici anni le donne hutu hanno accettato di diventare vedove, e i padri di perdere i loro figli nelle battaglie contro il regime dispotico tutsi di Pierre Buyoya nella speranza di costruire un Burundi migliore, democratico e civile. Ora comprendono che i martiri sono morti invano e Nkurunziza è ancorato al passato di dittature e divisioni razziali. Non c’è peggior cosa per una popolazione lottare per un sogno e vedere i propri leader tradirlo spudoratamente.
Confermo i quaranta mila profughi in Rwanda, Congo e Tanzania ma anche questo esodo dalle proporzioni bibliche rispecchia la realtà del Burundi di oggi. I precedenti esodi (1957, 1962, 1974, 1983, 1993, 1996) sono esodi mono-etnici di tutsi o hutu a seconda della comunità che subiva le violenze e le pulizie etniche. L’esodo che stiamo assistendo ora è di hutu e tutsi, tutti terrorizzati a morte dal loro presidente e dai mercenari stranieri: i terroristi ruandesi delle FDLR. La guerra civile è all’ordine del giorno ma non come vorrebbe il presidente Nkurunziza: hutu contro tutsi. La popolazione burundese ora rifiuta anche gli appelli alla pace e al dialogo lanciati dalla Chiesa Cattolica sospettata di favorire il regime tramite diplomazie sotterrane condotte dalla Comunità di Sant’Egidio di cui ho ampiamente parlato in alcuni recenti articoli. Rimane intenzionata a conquistare la democrazia e la libertà. Divenire un esempio per la regione e uscire dalla miseria degradante che genera disoccupati e prostitute. Vogliono lavoro, studi universitari, tre pasti al giorno e con il tempo la motocicletta e poi la piccola macchina per portare la famiglia a fare la gita sul meraviglioso lago Tanganika. I burundesi nutrono gli stessi desideri di vita normale che nutrivano i nostri nonni nell’Italia dell’immediato dopoguerra attirati dal desiderio di possedere la Fiat 500. Questi desideri sono la forza motrice della determinazione dei manifestanti che si stanno già armando. Se la guerra civile scoppierà non sarà etnica ma tra le forze conservatrici di un orrendo passato e le forze democratiche che aspirano ad una società multietnica e al benessere che constatano nei vicini Rwanda, Uganda, Tanzania e Kenya.
3) Quali paesi confinanti supportano il presidente? Chi si e’ schierato a favore o contro?
Il presidente è fondamentalmente isolato non solo presso la Comunità dell’Africa Orientale (East African Community) ma anche presso l’Unione Africana. Il Sud Africa, paese chiave per gli accordi di Arusha, ha esternato tutto il suo rammarico per l’accanimento al potere di Nkurunziza e per la grave crisi da lui provocata. L’Uganda e il Rwanda sono militarmente pronti ad invadere il paese sia per distruggere i terroristi delle FDLR sia per fermare un eventuale genocidio. L’Unione Africana è pronta a sospendere il Burundi qualora non siano rispettate le regole democratiche. Il presidente Nkurunziza può contare su un ambiguo supporto della Tanzania e sul chiaro supporto della Repubblica Democratica del Congo. Su questo ultimo alleato è opportuno soffermarsi. Il presidente Joseph Kabila si trova nella stessa situazione del suo omologo burundese: vuole ottenere il terzo mandato ma è odiato dalla popolazione. Anche egli gioca la carte etnica ventilando il pericolo tutsi del Rwanda mentre i problemi del Congo sotto tutti ed esclusivamente interni. Pressato dalla Comunità Internazionale affinché eliminasse i terroristi FLDR ha stretto accordi segreti con Nkurunziza per farli passare indenni dal Congo al Burundi con tutte le armi.
Dopo di che ha architettato la messinscena dell’offensiva militare contro le FLDR all’est del paese. Una buffonata a cui le forze speciali di pronto intervento della Tanzania e del Sud Africa e i caschi blu dell’ONU (MONUSCO) si sono rifiutati di partecipare. Perché questa difesa ad oltranza di un gruppo genocidario presente dal 1996 nella lista dei gruppi terroristi internazionale redatta dagli Stati Uniti? La ragione è semplice ed ha basi finanziarie. L’impero mafioso economico della Famiglia Kabila si basa sulla rapina e sul traffico illegale dei metalli preziosi dell’est del paese: oro, diamanti e coltan. Questo traffico illegale (a cui va aggiunto il massacro di elefanti per l’avorio) è gestito dai terroristi delle FDLR che collaborano con lo Stato Maggiore dell’esercito congolese e la famiglia presidenziale. Inoltre le FDLR sono considerate le uniche forze capaci di controbilanciare l’imperialismo regionale del Rwanda e sono state utilizzate contro la recente ribellione tutsi del Movimento 23 Marzo noto sotto la sigla M23 (marzo 2012 – dicembre 2013). I destini di Nkurunziza e Kabila sono strettamente legati. La vittoria o la sconfitta del presidente burundese determinerà la sorte del presidente congolese.
4) Il Burundi- come tanti paesi Africani – e’ stato colonizzato più’ volte…le rivalità’ etniche tra Hutu e Tutsi derivano dalla colonizzazione? Quanto delle tensioni politiche che vediamo oggi hanno a che fare con i resti del colonialismo?
Mi stai chiedendo di rispondere ad una domanda complessa che necessita di accurati approfondimenti storici. Tenterò di semplificare la risposta al fine di offrire un quadro chiaro ai lettori. Nel periodo pre coloniale hutu e tutsi non erano considerati etnie diverse: parlano la stessa lingua, condividono gli stessi dei, la stessa cultura e le stesse abitudini alimentari. Erano due classi sociali: i coltivatori (considerati inferiori) e i allevatori (considerati superiori). La mobilità tra le due classi sociali era estremamente elevata. L’Hutu che riusciva dopo anni di duro lavoro a possedere più di quattro mucche diventava un tutsi mentre il tutsi che perdeva il suo bestiame (per debiti o gioco d’azzardo) diveniva un hutu, perdendo i privilegi. Anche il potere si basava su un complicatissimo equilibrio sociale.
Il Re e i suoi discendenti erano solo Tutsi ma egli aveva l’obbligo di sposare almeno una hutu tra le sue cinque mogli. I figli generati dalla moglie hutu diventavano principi ma senza diritto di accedere al trono. L’esercito reale era guidato da due comandanti supremi uno hutu e uno tutsi. Anche all’interno del consiglio dei saggi il 50% era hutu e il 50% era tutsi. Certamente si può far notare che questo equilibrio favoriva la classe sociale tutsi (che è stimata al 10% della popolazione) ma se osservino i servi della gleba nelle nostre società medioevali (paragonabili agli Hutu) di certo non godevano di privilegi ne di condivisione del potere. Fu l’avvento del colonialismo belga a stravolgere il tutto. I Padri Bianchi individuarono nei tutsi la classe sociale più idonea a collaborare con l’amministrazione coloniale belga e inculcarono nei tutsi il concetto dei servi della gleba ben conosciuto dalla Chiesa Cattolica durante il suo potere incontrastato dei secoli bui in Europa. Verso l’indipendenza, all’inizio degli anni Cinquanta, i Padri Bianchi si accorsero che la classe tutsi che avevano elevato a superiorità nutriva sentimenti nazionalistici e comunisti. Per mantenere il paese sotto il gioco coloniale invertirono la strategia ed improvvisamente furono gli hutu a diventare i “buon selvaggi” soggiogati dalla tirannia dei tutsi. Si inventarono origini nilotiche per i tutsi senza prove. Essi erano venuti dall’Egitto e avevano sterminato e soggiogato gli hutu che avevano trovato in Rwanda e Burundi (allora uniti in un unico possedimento coloniale il Urundi). Ometterono di dire che l’unica etnia originaria dei due paesi era la Twa, cioè i pigmei, questi si decimati dalle migrazioni contemporanee di hutu e tutsi, forse due etnie diverse che decisero di fondersi e diventare due classi sociali per governare la regione.
L’odio istigato ai tutsi per far considerare gli hutu come esseri viscidi ed inferiori fu utilizzato sugli hutu affinché considerassero i tutsi come dei spietati tiranni. Questa fu la base dell’orrendo Manifesto Bahutu della rivoluzione contadina del Rwanda redatto dai Padri Bianchi nel 1957, il Main Keimpf del HutuPower che fu la base ideologica del genocidio del 1994. Questo lavaggio del cervello attuato ad entrambe le classi sociali fu possibile solo dopo una meticolosa e diabolica opera di distruzione della memoria storica attuata dai missionari belgi che imponevano la cultura occidentale e riscrissero la storia della regione cancellando la memoria degli antichi regni del Urundi, Shi (est del Congo) e Buganda (centro Uganda). Dopo anni di indottrinamento ruandesi e burundesi erano abituati a pensare che prima dell’avvento dei bianchi esistessero solo selvaggi intenti a scannarsi tra di loro, a pregare terribili divinità offrendo loro sacrifici umani. Il resto del dramma è purtroppo conosciuto. Quello che mi lascia interdetto è che ancora oggi una minoranza di Padri Bianchi e di missionari italiani che vivono nella regione sono ancora visceralmente attaccati alla filosofia di morte del HutuPower. Non riesco a comprende le ragioni in quanto questa ideologia è l’antitesi degli insegnamenti evangelici.
5) Burundi e Rwanda hanno una storia simile per quanto riguarda rivalità’ etniche tra Hutu e Tutsi e massacri – secondo te ce’ un pericolo concreto che un altro genocidio come quello avvenuto in Rwanda possa accadere?
Come spiegavo prima il Burundi e il Rwanda non hanno storie simili riguardo la rivalità etnica tra hutu e tutsi. In Rwanda è avvenuto il genocidio in Burundi è sempre stato evitato. L’unica possibilità per Nkurunziza di compiere il genocidio contro la minoranza tutsi è di utilizzare i terroristi ruandesi del FDLR e i giovani Imbonerakure a cui è stato fatto un orrendo e criminale lavaggio del cervello. Ma se questo accadrà prima delle forze di intervento africane (composte Kenya, Uganda e Rwanda) saranno le masse popolari hutu burundesi a fermare il genocidio. Di questo ne sono sicuro.
6) Come si sta comportando la comunità’ internazionale?
La Comunità Internazionale si sta comportando in modo schizofrenico e dimostra di non saper affrontare la crisi. La situazione è semplice. C’è un dittatore che vuole mantenere il potere calpestando la democrazia ed ospita terroristi stranieri nel suo paese. La Comunità Internazionale si dovrebbe schierare dalla parte delle forze democratiche e chiarire con atti inequivocabili che i dittatori non hanno futuro non solo in Africa ma in tutto il pianeta. Eppure l’Expo di Milano ospita il padiglione ufficiale del governo genocidario burundese con tanto di onori diplomatici… Penso che queste indecisioni siano inserite nella crisi della diplomazia occidentale a livello mondiale e nella sua incapacità di comprendere le nuove dinamiche che stanno emergendo che contrastano con la visione di supremazia unilaterale occidentale. Tra queste dinamiche è inserito il ruolo della Cina o dei paesi del BRICS ma anche la volontà del Continente Africano di evolversi e di lasciarsi alle spalle gli orrori che hanno impedito di svilupparsi. Il governo attuale del Burundi appartiene all’infame passato. L’unica grande novità che dona speranza al paese e al Continente è che la popolazione rifiuta l’inganno della divisione etnica e, compatta, richiede a viva voce e con determinazione sovrumana: democrazia, libertà e benessere.

Ludovica Iaccino
Londra, Inghilterra
@LudovicaIaccino

https://africanvoicess.wordpress.com/2015/05/19/burundi-intervista-a-fulvio-beltrami-il-terzo-mandato-nkurunziza-il-suici 

mercoledì 20 maggio 2015

La vita terribile nei campi dei rifugiati nigeriani: stupri traffico di bambini, rapimenti

Speciale Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 25 febbraio 2015
Uno degli ultimi attentati bomba in Nigeria, quello del 22 febbraio scorso, porta ovviamente la firma dei Boko Haram, anche se non è stato ancora rivendicato ufficialmente. A Potiskum, nello Stato dello Yobe,  sono morte cinque persone, altre dodici sono state ferite gravemente, perché una bambina di sette/otto anni è stata usata come kamikaze. E’ un gioco psicologico sottile, arguto, quello dei militanti terroristi: utilizzano ragazzine/ bambine per dimostrare l’inferiorità del genere femminile, per suscitare rabbia e indignazione nella popolazione e in noi occidentali. Generalmente si tratta di giovanissime rapite in scuole o durante le loro incursioni nei villaggi. Li trattano come schiave, e come tali, devono assoluta obbedienza.
Mentre esplode la bambina, echeggia ancora il canto di gloria dei vertici militari nigeriani. “Baga, è nuovamente nelle nostre mani. Ci sono stati feriti e morti, una dura battaglia. Dettagli seguono” si legge in un twitt del 21 febbraio 2015 del Defense HQ Nigeria”. Baga è stata presa d’assalto dai sanguinari miliziani all’inizio di gennaio (http://www.africa-express.info/2015/01/16/ammazzati-bambini-donne-partorienti-e-le-foto-agghiaccianti-della-distruzione-provocata-dai-boko-haram/http://www.africa-express.info/2015/01/09/inizio-dellanno-tragico-nigeria-sotto-il-segno-dei-massacri-di-boko-haram-che-conquistano-una-base-militare/) , seminando morte, violenze di ogni genere, atrocità mai viste prima.
tenda UNHCR 
Ali Taka ha 36 anni ed è padre di 7 figli. E’ scappato in Camerun con le sue due mogli e quattro dei loro figli. Sono al sicuro nel campo per profughi a Minawao, nel nord del Paese. Ma Ali Taka non dorme e non mangia quasi più: tre delle sue figlie sono state rapite dai Boko Haram nel caos della fuga. Happy ha sette anni, Daga e Lakwa 5. Il loro papà teme ogni giorno che possano essere usate come kamikaze dai terroristi.
Gli operatori umanitari in Nigeria e fonti delle Nazioni Unite stimano che gli sfollati abbiano raggiunto il milione, mentre 157.000 persone abbiano cercato rifugio negli Stati confinanti.
I campi per profughi e per sfollati non sono certamente alberghi a cinque stelle, chi è costretto a fuggire lo sa e mette al primo posto la sicurezza, la protezione della quale ha bisogno. Spesso anche queste vengono negate. Succede in Nigeria, nei campi dove vivono migliaia di persone, costrette a lasciare i loro villaggi distrutti dai Boko Haram o/e perché temono che possano ritornare  per uccidere, violentare le  giovani donne, rapirle.
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Qualche giorno fa è stata aperta un’inchiesta sulle gravi accuse lanciate contro alcuni operatori umanitari locali (stupro, traffico di bambini e altri abusi) contenute in un rapporto stilato dal giornalista freelance Charles Dickson e apparso in alcuni quotidiani nigeriani. Secondo l’Associated Press, Dickens avrebbe scoperto gli illeciti all’interno dei campi. Un’infermiera, che ha chiesto di mantenere l’anonimato, afferma che molti ragazzini vengono rapiti e portati in ospedale. Si suppone anche che alcuni sfollati siano stati venduti come domestici, mano d’opera gratuita. Tutto fa presupporre la presenza di bande di criminali organizzate.
Nel rapporto di Dickens si legge inoltre: “Ad una giovane mamma è stato rapito il suo bambino e una sedicenne è stata stuprata a più riprese. Ora è incinta di tre mesi. Un’altra ragazza della stessa età afferma che un operatore sanitario le avrebbe offerto lavoro come domestica nella sua casa, poi l’avrebbe stuprata per tre giorni di seguito, finchè non è riuscita a scappare”.
donne sedute
Nessuna delle vittime è stata identificata con nome e cognome. Dickens conclude: “Non si possono descrivere le condizioni di vita in questi campi. Terribili”. Ora si indaga su vasta scala. Uno speciale team investigativo è stato istituito qualche giorno fa ad Abuja, capitale della Nigeria.
Durante una conferenza stampa a Washington, il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Jan Psaki ha sottolineato che il governo degli Stati Uniti d’America ha già messo a disposizione 24,7 milioni di dollari per i rifugiati, sfollati e le persone coinvolte in conflitti con i Boko Haram in Ciad, Camerun, Niger e Nigeria. Ha precisato che: “questi soldi sono destinati alla protezione, cibo, agricoltura, mezzi di sussistenza, sanità, acqua potabile, igiene. Il governo di Barrak Obama stanzierà altro denaro in futuro”.
L’intelligence americana stima che Boko Haram abbia a disposizione non più di 4000 – 6000 uomini, ma sono capaci di essere ovunque in qualsiasi momento e hanno sufficientementi munizioni da mettere in difficoltà le guarnigioni nigeriane.  Per sostenere le forze armate nigeriane, l’Unione Africana si sta mobilitando con 8750 uomini ( soldati, poliziotti e operatori umanitari) che dovrebbero supportare la Nigeria nella guerra contro i terroristi.
Sambo Dasuki, consigliere della Sicurezza nazionale nigeriana ha dichiarato: “Ci stiamo impegnando per sconfiggere i Boko Haram entro il prossimo 28 marzo, data delle elezioni presidenziali”. Le elezioni erano previste per il 14 febbrario scorso, poi sono state rinviate di sei settimane, proprio a causa degli incessanti attacchi dei terroristi.  Se in tanti anni non è stato fatto nulla o quasi, sarà possibile annientare la setta islamica in sole sei settimane? Riusciranno a portare a casa le ragazze rapite a Chibok nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2014. Il mondo intero le sta aspettando.
E come se tutto ciò non bastasse, un missionario metodista statunitense, Phyllis Sortor, è stato rapito lunedì scorso a Emiworo, nello Stato di Kogi, Nigeria centrale.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
#BringBackOurGirls

lunedì 18 maggio 2015

Israele deporta i migranti in Ruanda e Uganda. Una doverosa precisazione, non sempre i rifugiati sono vittime..


Sulla stimata Africa Rivista è comparso un interessante articolo sull’immigrazione forzata del Governo Israeliano di immigrati definiti “clandestini” in due paesi africani: Rwanda e Uganda. Confermo la notizia e gli accordi stipulati tra Tel Aviv, Kampala e Kigali. Accordi che in Uganda non sono segreti, nonostante i tentativi del governo di mantenerli tali. Personalmente trovo discutibile la scelta fatta dai presidenti Yoweri Museveni e Paul Kagame, e condannabile la scelta israeliana che conferma la profonda ideologia razzista del suo governo, ideologia non certo condivisa dalla maggioranza degli israeliani. Eppure alcune precisazioni sono necessarie per quanto riguarda gli immigrati espulsi da Israele ed accolti in Uganda.

Il soggiorno ai “clandestini” africani provenienti da Israele è stato concesso per motivi umanitari. Cosa significa questo? Secondo la legge ugandese lo statuto di rifugiato garantisce il diritto di abitare ovunque l’individuo voglia sul territorio nazionale, il diritto alla assistenza sanitaria per lui e per tutta la sua famiglia. Il diritto all’educazione gratuita dei figli fino alla scuola media. Il diritto di lavorare sia come dipendente sia come lavoratore autonomo. La legge ugandese sui rifugiati è una tra le più avanzate al mondo e una tra le meglio applicate. Questo lodevole primato non è certo dovuto da uno spirito umanitario del presidente Museveni ma da freddi calcoli politici militari. Un rifugiato integrato socialmente ed economicamente nella società che lo ospita è meno incline a creare attività eversive o arruolarsi a guerriglie. L’integrazione giova al rifugiato e alla sicurezza interna del paese. Dinnanzia alla realtà, che io tocco con mano ogni giorno, mi risulta non credibile che gli immigrati espulsi siano costretti a vivere da clandestini in Uganda.
Confermo anche come veritiera la notizia che Israele dona 3.500 dollari a persona pur di sbarazzarsi degli immigrati africani. Indipendentemente dalle considerazioni sul razzismo del governo israeliano è doveroso far notare che nessun altro governo occidentale offre tale somma a dei clandestini espulsi, Italia compresa. Semplicemente li rimpatriano con la forza. Visto che i rifugiati in Uganda hanno il diritto di aprire attività commerciali, 3.500 dollari ammontano a 8.750.000 scellini ugandesi. Una considerevole somma di denaro che permette di aprire una discreta attività commerciale. Milioni di ugandesi sarebbero felicissimi di possedere questa piccola fortuna e mettere su un ristorantino, una fabbrichetta artigianale, un allevamento di polli di medie dimensioni, un negozio di vendita cellulari ed accessori, o abbigliamento, o un’agenzia di consulenze. Visto che la maggioranza di queste persone espulse sono Etiopi ed Eritrei, questi rifugiati godono anche del vantaggio della presenza in Uganda di una forte comunità del loro paese nota per la sua grande solidarietà.
Quindi gli immigrati espulsi da Israele non hanno dinnanzi a loro un futuro di clandestini e di miseria in Uganda. Al contrario possono integrarsi a pieno diritto nella società che li ospita. Agli occhi degli ugandesi sono anche dei privilegiati, possedendo una somma di denaro che un ugandese deve sudare 6 anni per ottenerla (a messo che abbia un lavoro). Se questi africani espulsi da Israele desiderano spendere i 3.500 dollari ricevuti per pagare un viaggio allucinante che potrebbe loro costare la vita, per giungere a Lampedusa o in altre località europee, questo è una loro libera scelta, ma non devono accusare un paese africano che è ha una politica migratoria tollerante che non è stata nemmeno intaccata dall’emergenza terroristica nella regione, ne’ fare affermazioni totalmente false di “clandestinità e futuro nero” in Uganda per provocare pietismo e far scattare la solidarietà di brave ed oneste persone europee, purtroppo inconsapevoli della realtà.
Pur essendo un Pan Africanista convinto ed amando il Continente, mi sento in dovere di avvertire i lettori e i cittadini italiani in generale. Attenzione: a volte i miei fratelli africani sono abili nel giocare il ruolo di vittime per scopi di lucro. Noi occidentali siamo meno abili a comprendere questi giochi. La mora è che non sempre le vittime sono genuine. Il problema dei flussi migratori è complesso. Ogni capriccio semplicistico (dal razzismo alla difesa ad oltranza degli immigrati e clandestini) non aiuta a comprenderlo e a risolverlo.
L’articolo di Africa Rivista

Fulvio Bektrami Kampala, Uganda @Fulviobeltrami

Cina: prima base militare in Africa



Pechino spinge verso la realizzazione del sogno di Gheddafi, gli United States of Africa

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Kampala - Nonostante le vive proteste della Casa Bianca, il Presidente Ismail Omar Guelleh ha concesso l’autorizzazione allEsercito Popolare Cinese di costruire una base militare presso il porto di Obock, a Nord della capitale di Djibouti. L’autorizzazione fa seguito alla firma del trattato di cooperazione militare tra il piccolo ma strategico Stato africano e il gigante asiatico firmato nel febbraio 2014. Pechino ha preceduto questa inattesa mossa con ingenti finanziamenti a fondo perduto per la realizzazione di infrastrutture a Djibouti per un valore di 9 miliardi di dollari che comprendono il rinnovo e l’ampliamento di porti, aeroporti e reti stradale e ferroviaria. Il finanziamento era stato considerato dagli economisti come un tentativo di favorire il commercio dell’Etiopia, un Paese che non ha più sbocco sul mare dopo l’indipendenza dell’Eritrea avvenuta negli anni Novanta. Ora si comprende la ragione recondita di questi doni: la possibilità di avere la prima base militare in Africa.
La scelta di Djibouti è in primo luogo strategica. La Città-Stato si affaccia sul canale Bab al-Mandeb che separa l’Africa dalla Penisola Arabica, la principale rotta marittima per il commercio mondiale tra il Mediterraneo, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Il primo beneficiario arabo della presenza militare cinese sarà indubbiamente l’Iran, antico e fedele alleato di Pechino. Non si può che constatare anche un certo grado di sfida alle potenze occidentali che hanno a Djibouti le loro basi militari ufficialmente per la lotta contro il terrorismo internazionale e la pirateria del Golfo Arabico. Stati Uniti e Francia condividono la base di Camp Lemonnier dove sono presenti le flotte aero-navali e i reparti di fanteria delle due potenze occidentali. Camp Lemonnier è la principale base militare per la coordinazione e l’intervento in vari teatri di guerra dallo Yemen alla Somalia, attualmente utilizzata dall’aviazione Saudita per la sua illegale campagna militare contro lo Yemen che sta causando una ecatombe tra i civili del martoriato Paese arabo.
Camp Lemonnier ospita anche le truppe speciali  franco-americane di pronto intervento con il compito di prevenire eventuali ‘focolai eversivi’ che si possono verificare in Africa, che tradotto in linguaggio corrente significa la protezione degli interessi delle multinazionali occidentali nel Continente. Da Djibouti sono partite le prime truppe francesi per lottare contro i ribelli Tuareg in Mali o contro i ribelli musulmani nella Repubblica Centroafricana. In entrambi i Paesi la Francia ha fatto cadere i Governi democraticamente eletti sostituendoli con il caos politico e l’orrore delle guerre etniche o religiose. Anche il Giappone ha una base a Djibouti dove è stanziata parte della sua flotta militare. L’imminente presenza della flotta cinese aumenterà le già tese relazioni tra Pechino e Tokyo. Durante le commemorazioni della vittoria sovietica sulle forze naziste avvenute a Mosca sabato scorso il presidente Xi Jinping ha messo in guardia il Giappone che l’Esercito Popolare aumenterà la sua vigilanza contro ogni tentativo di imperialismo nipponico nel Sud Est asiatico dopo la propaganda revisionista del governo giapponese rispetto all’occupazione della Manciuria e al relativo genocidio commesso contro la popolazione cinese negli anni Quaranta.
Il Presidente Barack Obama ha giudicato la decisione del suo omologo Djibutino un grave errore di valutazione che potrebbe incrinare seriamente le relazioni tra i due Paesi. Il Presidente Guelleh ha ricordato che Djibouti non è una colonia occidentale ma uno Stato sovrano con pieno diritto di firmare o disdire accordi di collaborazione militare con i vari attori internazionali. La mossa decisa da Pechino è un chiaro segnale che la Cina ha deciso di difendere con mezzi tipicamente occidentali la sua seconda fase di penetrazione del Continente africano. La prima fase: esportazione di materie prime e idrocarburi  e potenziamento delle infrastrutture sembra destinata a diminuire sensibilmente per far posto alla seconda fase di conquista continentale. Una fase molto pericolosa per gli equilibri occidentali in Africa che prevede l’alleanza politica economica e militare di vari Paesi africani con la Cina e l’avvio del processo di industrializzazione del Continente finanziato dalla neonata Banca Asiatica, diretta concorrente e pratica alternativa agli istituti finanziari occidentali: FMI e Banca Mondiale controllati rispettivamente da Francia e Stati Uniti.
Secondo gli strateghi di Pechino la Cina può vincere la guerra geo-strategica contro l’Occidente rivoluzionando i rapporti con gli Stati Africani. Trasformandoli da satelliti coloniali e serbatoi di materie prime in partner commerciali e politici di pari importanza. Oltre agli alleati tradizionali quali Eritrea, Sudan e Zimbabwe, la Cina sta conquistando baluardi americani quali Etiopia, Kenya, Rwanda e Uganda. Particolare attenzione è posta da Pechino verso le potenze regionali. Questo spiega gli ingenti investimenti, supporti politici e alleanze con Kampala, Luanda e Pretoria. La politica di non interferenza negli affari interni di Stati Sovrani verrà mantenuta ma con la variante militare. Questa variante prevede lutilizzo dellArmata Popolare Cinese in tutti i Paesi dove gli interessi della Cina e dei suoi alleati africani sono messi a repentaglio. Un’anticipazione della nuova dottrina di intervento militare cinese è stato il Sud Sudan dove Pechino ha inviato 600 soldati d’élite, ufficialmente sotto mandato ONU per proteggere le popolazioni dalle violenze commesse dalle parti belligeranti durante il conflitto scoppiato nel dicembre 2013.
In realtà il contingente cinese in Sud Sudan ha pieno mandato offensivo ed opera autonomamente dai caschi blu dell’ONU, appoggiando le truppe governative e l’esercito ugandese nelle offensive attuate contro la ribellione del ex Vicepresidente Riek Machar. La Cina sta giocando anche un importante ruolo diplomatico nel continente. Ha impedito la guerra tra Sudan e Sud Sudan nel 2007 e nel 2011, mantiene in vita il moribondo regime del Presidente sud sudanese Salva Kiir e il regime di Robert Mugabe. Pur non riconoscendo ufficialmente lo stato della Somaliland, Pechino è il principale partner economico e primo interlocutore politico della ex colonia somala britannica staccatasi nel 1991 dal resto del Paese sprofondato in una eterna guerra clanica. Rwanda e Uganda stanno aumentando i loro sforzi diplomatici al fine di convincere Pechino ad assumere un ruolo più attivo nella Regione dei Grandi Laghi sopratutto ai danni dell’attuale dittatura del Presidente congolese Joseph Kabila.
A questa richiesta Pechino risponde con estrema cautela e molte riserve. Il Congo è uno dei suoi partner regionali dove le multinazionali cinesi stanno facendo affari milionari nella realizzazione di infrastrutture pubbliche. Pechino inoltre teme di non riuscire a controllare il caos che potrebbe generare una eventuale balcanizzazione della Repubblica Democratica del Congo, Paese di cui delle cui complicate dinamiche politiche e sociali gli strateghi cinesi sono pressoché ignari. Fonti diplomatiche informano che la Casa Bianca aumenterà nelle prossime settimane gli sforzi (anche economici) per convincere il Presidente Djibutino Guelleh a revocare l’autorizzazione concessa alla Cina relativa alla prima base militare in Africa. Sforzi che sembrano destinati al fallimento. Negli ultimi due anni il presidente Guelleh ha rafforzato i legami con il Dragone Rosso che è diventato il primo partner economico della piccola nazione del Corno d’Africa.
Nel 2014 la Cina ha modernizzato le infrastrutture portuali di Djibouti e una compagnia cinese ha preso in mano la gestione commerciale del porto sostituendo la precedente amministrazione di una ditta Arabo-Americana accusata di corruzione ed inefficienza. La strategia cinese nel continente non prevede confronti militari contro le potenze occidentali ma una lenta ed inesorabile distruzione delle alleanze politiche economiche tra l’Occidente e i Paesi Africani. Compito facilitato dalla sempre più evidente opposizione popolare contro le ex potenze coloniali e gli Stati Uniti che fino ad ora hanno impedito lo sviluppo economico e lunione politica del continente relegandolo al ruolo coloniale di riserva di materie prime e petrolifere. Dopo la seconda fase (partenariato economico e rivoluzione industriale) Pechino ne prevede altre due: creare il Made in Africa, anche grazie alla delocalizzazione delle industrie cinesi che usufruirebbero di mano d’opera meno cara rispetto a quella in madre patria, e l’unione politica africana: l’antico sogno del Colonnello Muammar Gheddafi degli United States of Africa.
La maggioranza delle cancellerie africane (sopratutto quelle anglofone) approvano in pieno la strategia cinese considerata un ottimo e potente mezzo per contrastare le pressanti ingerenze politiche dell’Occidente dettate da una fame ormai spropositata di profitti e materie prime per mantenere economie moribonde e antiche glorie di potenze mondiali. LAfrica agli africani è la parola dordine che è ormai diffusa in tutto il continente. Occorre però che i vari Governi verifichino attentamente il rischio di passare da un padrone ad un altro. La domanda del secolo è semplice: la Cina può essere un partner affidabile su cui costruire mutue e convenienti relazioni tra pari o un nuovo impero coloniale travestito al momento da disinteressato benefattore della razza negra? Al momento un dato storico è certo: lincapacità dellOccidente di mantenere il controllo sul Continente che ha dato origine allumanità causa lutilizzo ormai inappropriato e controproducente delle tecniche tipiche dei tempi della Guerra Fredda. Interferenze politiche, finanziamenti di colpi di stato, guerriglie, guerre civili, sanzioni unilaterali, sostegno di dittature, missioni di pace, aiuti umanitari, strumentalizzazione del rispetto dei diritti umani secondo le convenienze del momento,  minacce di tribunali internazionali per giudicare crimini di guerra o contro l’umanità. Tutte tattiche che l’Africa ripudia nutrendo ormai un odio atavico verso i Bianchi, memore dei mille genocidi e violenze devastatrici Made in France o in USA.

domenica 17 maggio 2015

Chi sono i rohingya e perché vengono abbandonati in mare


È ancora poco chiaro il destino di alcune imbarcazioni cariche di migranti rohingya partite dalla Birmania e respinte dalla Malesia, dalla Thailandia e dall’Indonesia. Secondo le Nazioni Unite, sono circa seimila i migranti alla deriva nel mare delle Andamane e in cerca di un approdo, ma secondo altre stime potrebbero essere trentamila. Come e perché è esplosa la crisi dei migranti rohingya.
La barca con a bordo circa 350 migranti rohingya e alla deriva al largo delle coste tailandesi, nel mare delle Andamane. Almeno dieci persone sono morte durante il viaggio. - Thanaporn Promyamyai, Afp
La barca con a bordo circa 350 migranti rohingya e alla deriva al largo delle coste tailandesi, nel mare delle Andamane. Almeno dieci persone sono morte durante il viaggio.
Chi sono i rohingya
  • I rohingya sono un gruppo etnico di fede musulmana che risiede principalmente nel nord dello stato birmano del Rakhine, al confine con il Bangladesh, e non è riconosciuto come minoranza dalla Birmania.
  • Si ritiene discendano dai commercianti musulmani che si stabilirono nel paese più di mille anni fa.
  • Gruppi di rohingya vivono anche in Bangladesh, Arabia Saudita e Pakistan.
  • In Birmania e in Bangladesh sono sistematicamente discriminati e fanno parte degli strati più poveri della popolazione.
Perché è scoppiata la crisi dei rohingya?
Dal 2012 a oggi i rohingya e altri musulmani birmani hanno subìto violenti attacchi da parte della maggioranza buddista. I rakhine, buddisti, sono la comunità più numerosa nell’omonimo stato e negli ultimi tre anni hanno incendiato interi villaggi e ucciso centinaia di rohingya. Le autorità birmane sono accusate di non essere intervenute per fermare le violenze, che hanno spinto sempre più rohingya a scappare. A peggiorare la situazione è intervenuta la politica di respingimento adottata da Thailandia, Malesia e Indonesia.
I rohingya in Birmania
Nello stato del Rakhine vive quasi un milione di rohingya, su una popolazione di quattro milioni di persone. Molti abitanti non li considerano birmani: li ritengono dei bengalesi musulmani, arrivati con la colonizzazione britannica. Il governo birmano quindi non riconosce loro la cittadinanza, privandoli dei loro diritti fondamentali. Non possono muoversi liberamente nel paese, non possono avere più di due figli né hanno diritto alla proprietà privata. Vivono in campi sovraffollati fuori dalla città di Sittwe, capoluogo del Rakhine, privati dell’accesso alle cure mediche e all’istruzione. Senza documenti o prospettive di lavoro, sopravvivono nell’indigenza. L’Unhcr, l’agenzia del’Onu che si occupa dei rifugiati, ha calcolato che negli ultimi tre anni più di 120mila rohingya sono fuggiti nei paesi vicini. Secondo Human rights watch (Hrw), nei primi tre mesi del 2015 in circa 28.500 hanno intrapreso il viaggio via mare.
Il 1 aprile il governo birmano ha formalmente annullato le carte d’identità temporanee, che rappresentavano l’ultima forma di identificazione ufficiale dei rohingya, privandoli anche del diritto di votare.
L’atteggiamento dei paesi della regione nei confronti dei rohingya
I paesi che confinano con la Birmania sono molto ostili nei confronti dei migranti rohingya e riluttanti a fornirgli assistenza. Human rights watch ha accusato la Malesia, la Thailandia e l’Indonesia di “giocare un ping pong umano”.
  • La Malesia è da anni uno dei maggiori punti di approdo dei migranti rohingya, che preferiscono arrivare in un paese musulmano. Questa settimana le navi della guardia costiera malese hanno respinto due imbarcazioni con a bordo circa seicento migranti dopo la decisione del governo di chiudere i porti del paese e di dare provviste alle navi dei migranti e mandarle via. Il governo è preoccupato dell’impatto che una crisi umanitaria legata all’arrivo dei migranti potrebbe avere sul settore del commercio e del turismo. Il paese ospita già 150mila migranti stranieri, di cui 45mila sono rohingya. Il governo malese accusa la Birmania e il Bangladesh di essere i responsabili della crisi con le loro politiche discriminatorie nei confronti delle minoranze e reputa che siano questi due paesi a dover trovare una soluzione.
  • La Thailandia è stata per anni al centro dell’industria del traffico di esseri umani nel sudest asiatico. I trafficanti hanno usato il paese come transito dove sbarcare i migranti, sistemarli temporaneamente in accampamenti nascosti nella giungla e trasportarli poi in altri paesi. Le cose hanno cominciato a cambiare dopo che il 1 maggio le autorità hanno scoperto una fossa comune con più di trenta corpi di presunti migranti rohingya in un accampamento abbandonato nella foresta vicino al confine con la Malesia. Il governo ha deciso un giro di vite contro i trafficanti, compiendo diversi arresti e rafforzando i controlli in mare. Per evitare l’arresto, i trafficanti hanno abbandonato le imbarcazioni piene di migranti lasciandole alla deriva in mare. Il 29 maggio Bangkok ospiterà un incontro sulla “migrazione irregolare nell’oceano Indiano” con i rappresentanti di 15 paesi coinvolti.
  • Essendo un paese musulmano, l’Indonesia è uno dei punti di arrivo dei rohingya. In passato il paese ha avuto una politica di apertura nei confronti dei migranti e il precedente governo aveva condannato la persecuzione dei rohingya in Birmania. Ma il governo del presidente Joko Widodo ha deciso di rafforzare i controlli alle frontiere. La marina indonesiana ha respinto diverse imbarcazioni e il governo ha avvertito che i migranti che sono riusciti a sbarcare potrebbero essere espulsi. Il generale Moeldoko, comandante delle forze armate indonesiane, ha dichiarato che i militari pattuglieranno le frontiere marittime e forniranno assistenza alle imbarcazioni cariche di migranti, impedendogli però di entrare nelle acque territoriali indonesiane per “evitare problemi sociali”. “Se apriamo le frontiere, ci sarà un esodo”, ha detto il generale.
  • Negli ultimi vent’anni in Bangladesh è arrivato un flusso quasi ininterrotto di rohingya. Il governo gli ha concesso di vivere nei campi profughi sorti nel sudest del paese, al confine con la Birmania, dove le condizioni sono disastrose. In alcuni casi però li ha respinti verso la Birmania. Si stima che nei campi vivano circa duecentomila rohingya.
La questione dei respingimenti delle imbarcazioni dei migranti ha scatenato le reazioni della comunità internazionale. In particolare sono tre i soggetti coinvolti.
Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean)
I leader dei dieci paesi membri dell’Asean si incontrano due volte all’anno con l’obiettivo di aumentare la cooperazione e migliorare le vite dei loro cittadini. Uno dei princìpi fondanti dell’associazione è la non interferenza negli affari interni dei singoli stati, un punto che secondo i critici consente ai governi di commettere abusi senza conseguenze. Quando la Birmania ha avuto il turno della presidenza dell’Asean, nel 2014, ha vietato ogni dibattito sulla questione dei rohingya, ribadendo lo stesso concetto durante l’incontro del mese scorso a Langkawi. Molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani stanno facendo pressioni affinché l’Asean metta fine alla sua politica di non interferenza e chieda alla Birmania di risolvere la questione dei rohingya.
Stati Uniti
Sotto la pressione dei gruppi per la difesa dei diritti umani e di alcuni deputati, Washington ha chiesto ai paesi della regione di collaborare per salvare i migranti alla deriva. Ma sembra riluttante nell’offrire aiuto diretto alle operazioni di ricerca esalvataggio. “È una questione regionale. Occorre una soluzione regionale a breve termine”, ha detto Jeff Rathke, il portavoce del dipartimento di stato.
Nazioni Unite
L’Unhcr ha detto di essere “estremamente allarmata” per la situazione dei migranti rohingya e ha chiesto ai paesi della regione di dare la priorità al salvataggio delle vite piuttosto che alla definizione delle politiche di governo. L’agenzia non ha il mandato per portare avanti delle proprie missioni di salvataggio, ma sta lavorando con i governi e le organizzazioni per “girare le informazioni alle persone giuste” che possono fare qualcosa. ( http://www.internazionale.it/notizie/2015/05/15/rohingya-migranti)