sabato 28 maggio 2011

Gli Amondawa


Ecco la tribù che non ha bisogno del tempo
Gli Amondawa sono poco più di un'ottantina, ma sono orgogliosi della propria cultura
Oltre la relatività del tempo ci può essere soltanto la sua negazione. È quanto rivela all'uomo occidentale un gruppo di indios dell'Amazzonia brasiliana, gli Amondawa, la cui cultura e lingua sono diventati un rompicapo straordinario, che sta impegnando molti scienziati da tutto il mondo.
Negare il tempo non come rifiuto, ma semplicemente per un «non bisogno». A questa conclusione è arrivato un team dell'Università statunitense di Portsmouth che, lavorando a stretto contatto con i colleghi dell'Università brasiliana della Rondônia, ha monitorato la comunità degli Amondawa, pubblicando i risultati dello studio sulla prestigiosa rivista «Language and Cognition».
Un gruppo davvero sparuto quello degli Amondawa, composto da uomini, donne, bambini e anziani che vivono negli Stati brasiliani della Rondônia e dell'Acre, vicino al fiume Jiparaná. Sono poco più di un'ottantina, una cifra ridicola, se paragonata all'immensa estensione della foresta amazzonica (più di 6,5 milioni di kmq, di cui il 65% in Brasile ), ma custodiscono un segreto unico. Nella loro cultura non esiste l'idea di tempo. E non esistono neppure i calendari e quindi le persone non sanno la loro età. Al punto che le fasi della vita - infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia - vengono «raccontate» nella comunità cambiando il nome della persona.
Quello che per gli occidentali è il lento e inesorabile fluire del tempo in Amazzonia diventa una totale trasformazione della persona, del suo essere. Di religione animista, del resto, questi indios riconoscono un'anima o uno spirito in ogni cosa, negli oggetti come nella natura, che nell'Amazzonia è maestosa e dominatrice. «Noi siamo quello che abbiamo intorno», spiega con saggezza antica un indio, che tutti chiamano in portoghese Pedro, anche se il suo vero nome è Tupirim. Solo che intorno non c'è il tempo, aggiungiamo noi.
Secondo Chris Sinha, docente di filosofia del linguaggio nell'Università di Portsmouth e a capo del team di ricerca, «non possiamo, in realtà dire, che siano un popolo fuori dal tempo». Come altri indios «parlano di eventi e sequenze di eventi. Ciò che non riscontriamo, però, è la nozione di tempo come condizione indipendente dagli eventi a cui è legato. Gli Amondawa non hanno cioè la nozione del tempo come qualcosa dentro il quale un fatto avvenga». Mancano così nella loro lingua parole per indicare «anno», «mese», «settimana». Vivono cioè in una dimensione composta da eventi, ma non riescono a vedere questi episodi come parte del fluire del tempo.
Com’è possibile? Secondo i ricercatori, l'assenza del concetto di tempo deriverebbe dall'assenza del «tempo tecnologico», ovvero di un calendario, correlato a sua volta all'esistenza di un sistema numerico. Non saper contare avrebbe dunque impedito lo sviluppo della nozione di tempo tra gli Amondawa, che, peraltro, hanno goduto di un isolamento straordinario, visto che sono stati «contattati» dagli antropologi in tempi relativamente recenti, nel 1986. Da allora hanno cercato in tutti i modi di preservare il proprio stile di vita, arricchito da continue feste e rituali. Come l'Yreruá, per esempio, in cui gli uomini fanno finta di lanciare le proprie frecce, mentre le donne danzano, stringendosi alle loro braccia, e un «capo» dà il ritmo con un flauto e battendo i piedi.
Il mistero, tuttavia, è tutt’altro che risolto. Per Pierre Pica, linguista francese, è necessario effettuare ulteriori studi, perché il linguaggio - di per sé - può anche non rivelare quello che in realtà esiste nella percezione collettiva. Ovvero la possibilità che gli Amondawa abbiano un’idea di tempo più sofisticata di quanto appaia in superficie. La questione, quindi, resta ancora aperta, mentre sulla foresta amazzonica torna a scendere il buio: per noi è il domani che arriva, per gli indios soltanto la conclusione di un evento isolato. (Paolo Manzo-La Stampa.it)

giovedì 26 maggio 2011

Yemen sull' orlo della guerra civile, decine di morti a Sanaa

Decine di yemeniti sono rimasti uccisi in scontri verificatisi nella notte nella capitale Sanaa. Lo riferiscono oggi funzionari del governo, mentre la lotta per rovesciare il regime trentennale del presidente Ali Abdullah Saleh minaccia di trasformarsi in una guerra civile.
Gli abitanti stanno lasciando Sanaa a centinaia, dopo avere caricato di corsa i portapacchi delle auto, sperando di sfuggire alle violenze in cui da lunedì hanno perso la vita oltre 40 persone e che minacciano di estendersi ad altre zone della capitale.
Il ministero della Difesa ha detto in un messaggio via Internet che almeno 28 persone sono morte nell'esplosione di un deposito di armi nella capitale.
La procura yemenita ha ordinato l'arresto dei leader "ribelli" del gruppo tribale guidato dalla famiglia al-Ahmar e un funzionario governativo ha detto che la sede di un'emittente televisiva dell'opposizione è stata "distrutta", senza fornire dettagli.
Il leader tribale Sadiq al-Ahmar ha detto a Reuters che non c'è possibilità di una mediazione con Saleh e ha chiesto alle potenze regionali e mondiali di costringerlo a lasciare prima che il Paese piombi nella guerra civile.
"Ali Abdullah Saleh è un bugiardo, un bugiardo, un bugiardo", ha detto Ahmar, leader della federazione tribale Hashed.
Stati Uniti e Arabia Saudita, obiettivi di falliti attentati ad opera di un'ala di al Qaeda con base in Yemen, hanno cercato di disinnescare la crisi ed evitare che si diffonda l'anarchia, che rischierebbe di dare spazio ai militanti.
Si teme che lo Yemen, già sull'orlo della rovina finanziaria, possa finire in default rischiando di minare la sicurezza della regione e della vicina Arabia Saudita, il maggior esportatore di greggio al mondoI recenti scontri si sono concentrati in una zona della parte nord di Sanaa dove i combattenti fedeli ad Ahmar cercano di conquistare gli edifici governativi.
"Sono in corso scontri intorno all'aeroporto di Sanaa, e credo che l'aeroporto ora sia chiuso", ha detto Ahmar. Un funzionario del governo aveva detto in precedenza che lo scalo era stato chiuso brevemente per via degli scontri ma che era stato riaperto.
I funzionari non hanno fornito dettagli sulle vittime e sulla loro appartenenza, mentre ciascuna delle due parti attribuisce all'altra la responsabilità degli scontri.
A Sanaa ci sono lunghe file in panetterie, banche e stazioni di servizio, coi residenti che cercano di fare scorta di generi di prima necessità prima di scappare dalla capitale.

-- Sul sito www.reuters.it le altre notizie Reuters in italiano.


domenica 1 maggio 2011

IL VULCANO MARSILI

Il Marsili è un vulcano sottomarino localizzato nel Tirreno meridionale e appartenente all'arco insulare Eoliano. Si trova circa 140 km a nord della Sicilia e circa 150 km a ovest della Calabria ed è il piu grande vulcano d'Europa.
È stato indicato come potenzialmente pericoloso, perché potrebbe innescare uno tsunami che interesserebbe le coste tirreniche meridionali.
Scoperto negli anni venti del XX secolo e battezzato in onore dello scienziato italiano Luigi Ferdinando Marsili, questo vulcano sottomarino è stato studiato di recente nell'ambito di progetti strategici del CNR per mezzo di un sistema multibeam e di reti integrate di monitoraggio per osservazioni oceaniche. È stato trovato che il Marsili costituisce il più grande vulcano d'Europa, essendo esteso per 70 km in lunghezza e 30 km in larghezza. Il monte si eleva per circa 3000 metri dal fondo marino, raggiungendo con la sommità la quota di circa 450 metri al di sotto della superficie del mar Tirreno.
Fenomeni vulcanici sul monte Marsili sono tuttora attivi e sui fianchi si stanno sviluppando numerosi apparati vulcanici satelliti. I magmi del Marsili sono simili per composizione a quelli rilevati nell'arco Eoliano, la cui attività vulcanica è attribuita alla subduzione di antica crosta Tetidea (subduzione Ionica). Si stima che l'età d'inizio dell'attività vulcanica del Marsili sia inferiore a 200 mila anni. Sono state inoltre rilevate tracce di collassi di materiale dai fianchi di alcuni dei vulcani sottomarini i quali potrebbero aver causato maremoti nelle regioni costiere tirreniche dell'Italia meridionale.
Assieme al Magnaghi, al Vavilov e al Palinuro, il Marsili è inserito fra i vulcani sottomarini pericolosi del Mar Tirreno.
Nel febbraio 2010 la nave oceanografica Urania, del CNR, ha iniziato una campagna di studi sul vulcano sommerso. Sono stati rilevati rischi di crolli potenzialmente pericolosi che testimoniano una notevole instabilità. Una regione significativamente grande della sommità del Marsili risulta inoltre costitutita da rocce di bassa densità, fortemente indebolite da fenomeni di alterazione idrotermale; cosa che farebbe prevedere un evento di collasso di grandi dimensioni.
Il sismologo Enzo Boschi, presidente dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), ha dichiarato:
« La nostra ultima ricerca mostra che il vulcano non è strutturalmente solido, le sue pareti sono fragili, la camera magmatica è di dimensioni considerevoli. Tutto ciò ci dice che il vulcano è attivo e potrebbe entrare in eruzione in qualsiasi momento.  »
« Il cedimento delle pareti muoverebbe milioni di metri cubi di materiale, che sarebbe capace di generare un'onda di grande potenza. Gli indizi raccolti ora sono precisi, ma non si possono fare previsioni. Il rischio è reale e di difficile valutazione. Quello che serve è un sistema continuo di monitoraggio, per garantire attendibilità. »
Scrive il giornalista Giovanni Caprara sul Corriere della Sera, del 29 marzo 2010, intervistando Enzo Boschi:
« La caduta rapida di una notevole massa di materiale — spiega Boschi — scatenerebbe un potente tsunami che investirebbe le coste della Campania, della Calabria e della Sicilia provocando disastri. » (liberamente tratto da Wikipedia)