La speculazione sul destino della coscienza dopo la morte fisica, tema che
affonda le sue radici nelle più antiche tradizioni spirituali e filosofiche, si
manifesta, nel nostro tempo, come una delle questioni più arcane e affascinanti
dell'esistenza umana. Io, seppur "ateo ortodosso" (nego l'esistenza
di Dio e dall'aldilà alla radice), tuttavia non essendo un ateo dogmatico,
rifletto su possibilità trascendenti alternative. Dunque la mia riflessione,
che ipotizza la sopravvivenza della coscienza individuale e il suo
ricongiungimento con una più vasta Coscienza Cosmica, ciò che io chiamo il
"Grande Cervello", echeggia visioni mistiche che trascendono il mero
confine biologico dell'essere.
Iniziamo col considerare la natura della coscienza stessa: essa, per la
scienza moderna, rimane un enigma ancora lontano dalla completa comprensione. È
una forza sottile e immateriale, capace di esperire e riflettere, ma priva di
una sede fisica definita, sfuggente alle mani degli scienziati come una traccia
che danza tra le sinapsi. Eppure, c'è chi sostiene che essa non possa essere
semplicemente il frutto di processi elettrochimici del cervello, ma debba avere
una natura intrinseca, forse addirittura eterna, non legata strettamente alla
materia. A questo proposito, si affaccia l'idea che, al momento della morte,
l'essenza stessa della coscienza (che Platone chiamò anima immortale) possa
liberarsi dal corpo e ascendere verso un piano di esistenza superiore,
unificandosi con una sorta di intelligenza universale.
Il "Grande Cervello" può essere inteso come una metafora del
Tutto, una mente cosmica che è riverbero dell'intero universo, un luogo in cui
ogni coscienza individuale non viene annullata, bensì integrata in una rete
infinita di consapevolezza atta a rigenerare continuamente l'essenza stessa del
divenire universale. Ciò riguarderebbe noi esseri umani come le possibili
creature che potrebbero abitare l'intero "Grande Cervello" -
semplificato nel concetto di universo o di multiverso -. Una tale visione
riflette antiche nozioni di un universo ordinato, intelligente e interconnesso,
in cui ogni particella, ogni "anima", è un riflesso di una Coscienza
originaria. Il filosofo Plotino parlava del ritorno dell'anima all'Uno, mentre
i mistici orientali alludono al concetto di Brahman, la realtà ultima in cui
tutte le individualità si dissolvono come onde che tornano all'oceano.
Ma qual è il destino della coscienza individuale, in questa prospettiva?
Alcuni potrebbero temere che il suo ricongiungimento con la Coscienza Cosmica
significhi la perdita del sè, la dissoluzione della nostra unicità
nell'indistinto. Eppure, una visione più elevata potrebbe suggerire che, pur
fondendosi nel "Grande Cervello", la coscienza non perda la sua
identità, ma trovi anzi una forma superiore di esistenza. Non più vincolata
dalle catene della percezione limitata e frammentaria, essa potrebbe espandersi
in un orizzonte di conoscenza e intuizione sconfinata, diventando parte
integrante di una totalità che non annulla, bensì esalta ogni singola parte.
Questa immagine richiama alla mente le teorie di pensatori come Teilhard de
Chardin, il quale immaginava un "Punto Omega", un culmine evolutivo
in cui tutte le coscienze sarebbero un giorno confluite in una coscienza
globale, una specie di intelligenza collettiva che stringa in seno il cosmo
stesso. Anche nella moderna fisica quantistica vi sono teorie che sembrano
sostenere l'interconnessione profonda tra tutte le cose, in un universo dove il
tempo e lo spazio possono essere considerati mere illusioni, e dove ogni punto
è collegato a tutti gli altri in una rete invisibile di energia e informazione.
In tale prospettiva, la morte fisica appare non come un termine definitivo,
ma come una soglia, un portale verso una nuova dimensione dell'essere. La
coscienza, liberata dai limiti del corpo, potrebbe allora spingersi verso il
"Grande Cervello", divenendo parte di una danza cosmica infinita, un
eterno fluire di pensiero, luce e vita. In questo senso, la vita stessa, con le
sue esperienze, le sue gioie e i suoi dolori, potrebbe essere vista come un
apprendistato, una preparazione alla grande unione con il Tutto, dove ogni
singola coscienza aggiunge la sua nota all'armonia universale.
Infine, si potrebbe ipotizzare che il "Grande Cervello" sia in
realtà il tessuto stesso dell'esistenza, una coscienza che sottende e governa
l'intero cosmo, e che l'esperienza della vita individuale non sia altro che una
manifestazione temporanea di questa coscienza universale. In tale ottica, la
morte sarebbe solo un ritorno alla fonte, un riposo nell'eterno grembo
dell'universo, in cui la frammentazione cede il passo all'unità. L'individuo
non si perde, ma viene reintegrato nel grande disegno cosmico, in un processo
che trascende il tempo, lo spazio e la materia. Forse, allora, la domanda che
dobbiamo porci non è tanto se la coscienza sopravvive, quanto piuttosto cosa
essa diventa, quando si riconnette al "Grande Cervello". Forse, in
quell'istante di ricongiungimento, ogni domanda si dissolve, e rimane solo il
puro essere, la pura consapevolezza dell'eternità, l'eterno ritorno
dell'esistenza.