sabato 12 aprile 2025

 

George Orwell diceva:

La solitudine più terribile non è quella che deriva dall'essere soli, ma quella che deriva dall'essere fraintesi; la solitudine di stare in una stanza affollata, circondata da persone che non ti vedono, che non ti sentono, che non ti sanno la vera essenza di chi sei. E in quella solitudine, ti senti come se stessi svanendo, scomparendo nello sfondo, fino a non essere altro che un fantasma, un'ombra del te stesso di prima.

È quel dolore profondo dell'anima di essere circondato da persone - amici, familiari, colleghi - eppure sentirsi completamente invisibili. Puoi sorridere, annuire e passare attraverso i movimenti, ma dentro, senti un senso di isolamento che le parole non riescono a catturare appieno. Ti senti come se nessuno ti capisse veramente, come se le parti più vere di te fossero nascoste, lasciate non riconosciute, mentre il mondo riconosce solo la versione di te che si adatta.

Questo tipo di solitudine colpisce duramente perché non riguarda l'assenza di persone, ma l'assenza di connessione. Desideri essere vista per quello che sei veramente, per far capire a qualcuno il linguaggio della tua anima, le tue stranezze, i tuoi sogni e le complessità del tuo cuore. Ma quando vieni frainteso, ti sembra che ci sia un divario incolmabile tra il tuo mondo interiore e quello esterno. È come stare dietro una parete di vetro, sperando disperatamente che qualcuno ti guardi attraverso e ti *veda* veramente, per poi rendersi conto che ti sta guardando davanti.

In quello spazio di sentirsi sconosciuti, inizi a mettersi in discussione. Ti chiedi se dovresti cambiare, se dovresti diventare ciò che il mondo si aspetta o desidera, solo per sentire un pizzico di accettazione. Ma anche allora, la solitudine non svanisce, ma solo cresce. Perché la tragedia più profonda è la lenta dissolvenza della propria essenza, le parti di te che inizi a nascondere o a lasciare andare, semplicemente ad appartenere. Diventi un'ombra, un fantasma del te stesso vibrante che eri una volta, alla deriva silenziosa, aggrappandosi alla speranza che un giorno, qualcuno possa capire.

Ciò che rende questo tipo di solitudine così dolorosa è che non è solo il desiderio di essere amati, ma il desiderio di essere conosciuti, e amati *per* essere conosciuti. Per qualcuno che guardi le parti di te che sono incasinate, complicate, e anche rotte, e dica: "Ti vedo. Capisco. E sono qui. ” È il desiderio che qualcuno senta i sussurri più silenziosi del tuo cuore e senta le profondità della tua anima senza giudizio o aspettative.

Eppure, anche in quella terribile solitudine, c'è una forza tranquilla. C'è resilienza nel aggrapparsi alla propria essenza, anche quando sembra invisibile. C'è coraggio nel mantenere viva la tua luce, nel rifiutare di lasciare che l'incomprensione del mondo spenga il fuoco dentro di te. Puoi sentirti invisibile, ma la verità è che la tua unicità, la tua complessità, sono ciò che ti rende straordinario. Da qualche parte, qualcuno lo apprezzerà. E fino ad allora, puoi apprezzarlo.

A volte, il viaggio attraverso l'essere incompresi porta a una comprensione più profonda di se stessi. Ti insegna ad abbracciare chi sei, anche se il mondo non è pronto. Invita a trovare pace in compagnia, a coltivare le parti di te che si sentono soli e sconosciute. E, col tempo, potrai scoprire che i legami giusti - quelli che ti vedono, ti sentono e ti conoscono - arrivano quando meno te li aspetti.

Quindi, aspetta. Tieni viva la tua essenza. Rifiutati di diventare un'ombra, anche se questo significa stare da soli per un po'. Il tuo vero io merita di essere celebrato, e anche se l'attesa può sembrare lunga, la bellezza di essere pienamente conosciuti vale ogni momento. Il tuo popolo, quelli che capiscono veramente la tua anima, sono là fuori, e quando ti troveranno, la terribile solitudine inizierà a svanire. Ti renderai conto che la tua essenza non è mai stata fatta per essere nascosta. È sempre stato fatto per brillare.

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Cosa significherebbe per te sentirti veramente conosciuto e compreso da qualcuno?

 

Meraviglia della natura

 

Spettacolare questa panoramica del parco di Yellowstone! Non solo si vede la Via Lattea in tutta la sua estensione, ma si apprezza anche distintamente la luminosità verdastra dell'airglow.

L'airglow, o luminescenza notturna, è causato da un insieme di processi negli strati superiori dell'atmosfera, come la ricombinazione degli ioni che sono stati fotoionizzati dalla radiazione solare durante il giorno, la luminescenza derivante dagli urti tra i costituenti dell'atmosfera ed i raggi cosmici incidenti e la chemiluminescenza associata alla reazioni dell'ossigeno e dell'azoto con lo ione idrossido ad altezze di poche centinaia di chilometri.

E come non notare il Grand Prismatic Spring, il lago termale più grande degli Stati Uniti, dal cui bacino multicolore si solleva una nuvola di vapore?

Insomma, è uno spettacolo per gli occhi che almeno una volta nella vita vale la pena di vedere...

Massimiliano (dall'archivio gruppo Chi ha paura del buio)

Credits: Dave Lane Astrophotography



 

 

giovedì 10 aprile 2025

9 aprile 1948 il massacro sionista di Deir Yassin,

 

Fu pianificato per seminare il terrore e il panico tra la popolazione palestinese in tutte le città e paesi della Palestina, al fine di intimidire gli abitanti e obbligarli a fuggire per poter confiscare le loro case e le loro terre ad uso dei coloni ebrei. La tattica degli ebrei sionisti era di intimorire le persone indifese perché fuggissero dalle loro case per la paura di perdere la vita.

Assassinarono 250 persone. Mutilarono i corpi anche prima della morte. I criminali tagliarono membra ad alcuni e aprirono il ventre ad altri. Assassinarono bambini al petto delle loro madri indifese.

Di queste duecentocinquanta persone, a venticinque donne incinte fu conficcata una baionetta nel ventre. Mutilarono 52 bambini di fronte alle madri, dopo li assassinarono e decapitarono. Dopo assassinarono e mutilarono le madri. Circa sessanta donne e bambine furono assassinate e mutilate. Questi sono i fatti storici relativi all’orribile crimine perpetrato contro il villaggio arabo di Deir Yassin.

Nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1948, il tranquillo paese arabo di Deir Yassin, un sobborgo di Gerusalemme, fu sorpreso dagli altoparlanti che esortavano gli abitanti ad evacuare immediatamente il paese. I paesani si svegliarono, in uno stato di confusione e paura cercarono di verificare cosa stava succedendo e si trovarono circondati da ogni parte da bande ebree. Gli ebrei approfittarono della paura e della disorganizzazione che regnavano per uccidere e mutilare persone prive di qualsiasi opportunità di difendersi.

Gli assassini non erano soddisfatti dei crimini che avevano commesso nel villaggio. Aggredirono le donne e le bambine sopravvissute e dopo avergli tolto tutti i vestiti, le fecero salire su veicoli aperti, portandole nude per le strade del quartiere ebreo di Gerusalemme, dove furono sottoposte alle beffe e agli insulti degli spettatori. Molti scattarono delle fotografie di queste donne.

mercoledì 9 aprile 2025

L'intervista

 Educare le macchine restando pronti all’imprevedibile. L’AI vista da Cacciari

Michele Silenzi 08 apr 2025

“Oggi l’esistenza stessa dell’AI mostra come la nostra età sia caratterizzata dal primato dell’homo technicus”. Ma la macchina non deciderà mai da sola. Intervista al filosofo sulle sfide della nuova tecnologia

Massimo Cacciari è senza dubbio il più noto filosofo italiano. Il suo ultimo libro, Metafisica concreta, è un richiamo costante a pensare e a tentare di dire ciò per cui sembra non abbiamo parole, e che pure costituisce il tessuto stesso delle nostre esistenze: quello sfondo illimitato e inafferrabile senza cui sarebbe il nulla piuttosto che qualcosa, e dove la grande ricerca scientifica e la grande ricerca filosofica convergono. Allo stesso tempo, la sua riflessione è da sempre ben piantata in una continua attività politica, intesa sia come pratica amministrativa, sia come attività diretta del pensiero nelle cose che fanno pulsare la nostra quotidianità e danno forma al mondo che ci circonda giorno dopo giorno. In questo senso, in questa doppia veste, non potevamo non interrogarlo sulla grande questione dell’intelligenza artificiale che questo giornale, e nel suo piccolo questo ciclo di interviste, cerca di indagare e capire nella sua costante evoluzione.

Professor Cacciari, riflettendo sull’intelligenza artificiale penso che la prima cosa su cui portare l’attenzione, a livello filosofico, sia il tentativo di comprendere la distinzione, se vi è per lei, tra intelligenza e pensiero. Si può guardare all’intelligenza come alla “componente calcolante” della nostra ragione, considerando invece il pensiero come la sua parte “creativa”, ossia quella che “dà vita” a cose che altrimenti non sarebbero? Oppure ritiene questa distinzione oziosa o errata?

“Kant parlava di tre facoltà-forze fondamentali della nostra anima. Con la prima, strettamente connessa alle nostre capacità di calcolo, condizione di ogni mathesis, noi legiferiamo sui fenomeni, ta phaionomena, le cose in quanto e solo in quanto ci appaiono, e cioè stabiliamo leggi della natura. La seconda riguarda il nostro dover essere, indirizza secondo forme anch’esse a priori il nostro agire. Nella terza si esprime quella componente essenziale della nostra natura per cui noi speriamo esista una relazione essenziale tra essa e la natura “esteriore”, ovvero che la Natura nel suo insieme abbia come suo intrinseco fine la nostra felicità. Non resterebbe allora che chiedersi: può una Macchina presentare una tale complessità? Se riflettiamo un po’ potremmo facilmente vedere come le opere più straordinarie dell’uomo la manifestino, spesso drammaticamente, spesso mostrando la disarmonia tra le sue parti. Potrebbe una Macchina interrogarsi, come noi facciamo, intorno al problematico rapporto tra intelletto, ragione e giudizio teleologico? Potremmo giungere a dover ammettere: non lo sappiamo. Se il comportamento della Macchina corrispondesse al senso delle domande che ho appena posto come potremmo decidere sulla sua “natura”? Che sia ‘natura’ è certo, poiché nulla può esistere che non sia prodotto di Physis, ma ‘quale’ parrebbe impossibile deciderlo. Il test potrebbe svolgersi così: quali domande porre al nostro ‘interlocutore’ tali che le sue risposte accertino che si tratta di una Macchina? Ti angoscia la morte? Che intendi per morire? Sogni? Come hai amato o odiato? Ma non potrebbe, se la Macchina è ‘vissuta’ abbastanza, aver imparato da noi, frequentandoci, osservandoci, tutte queste ‘passioni dell’anima’, così da saperle perfettamente imitare? (E sarebbe allora ancora proprio parlare di imitazione?). Il self-learning non potrebbe giungere a comportare anche questo? O il costruttore vorrà a priori renderlo impossibile? Non credo si possa ora dare una risposta attendibile. Lo sviluppo dell’AI, come tutte le grandi imprese del general intellect tecnico-scientifico, è aperto all’imprevedibile. E l’imprevedibile è sempre deinon, ha sempre in sé tremendi pericoli”.

In una recente conferenza all’Accademia dei Lincei lei dice che la natura umana non è un dato, un fatto, ma un fieri, un farsi. In questa ottica, esiste un limite che si possa porre alla possibilità di una co-evoluzione tra essere umano e macchina?

“Co-evoluzione tra intelligenza e Tecnica vi è sempre stata. Per questo la Tecnica è sempre più che un affare tecnico. L’Homo technicus influisce sull’oeconomicus, sul politicus, sul poeticus – e reciprocamente. A seconda delle epoche l’una dimensione può emergere prepotentemente sulle altre e ognuna assumere forma diversa. Oggi l’esistenza stessa dell’AI mostra come la nostra età sia caratterizzata dal primato dell’homo technicus. E la forma specifica che la Tecnica assume in essa è quella che ho definito faustiana: il progetto di trasformazione della stessa intelligenza umana, più in generale: il progetto di trasformazione dello stesso soggetto della Tecnica. In questo senso, è già del tutto possibile pensare all’impianto nel cervello umano di dispositivi artificiali, di reti neurali artificiali. La co-evoluzione diverrebbe allora un matter of fact”.

A volte si teme il fatto che le macchine diventino più intelligenti di noi. Ma non lo sono già, se con intelligenza si intende semplicemente la capacità di calcolare? E quindi non dovremmo forse esaltare la potenza calcolante delle macchine di risolvere problemi pratici, e semplicemente capire come utilizzarle al meglio, per quello che potremmo chiamare, con parola desueta se utilizzata con maiuscola e priva di connotazioni moralistiche, il Bene? Ma in tal senso, quale il destino della politica? Ossia, nel momento in cui l’algoritmo processa tutto il calcolabile con “esattezza”, quale lo spazio della decisione?

“Se l’AI è chiamata – e lo è ogni giorno più profondamente – a fornire almeno la base conoscitiva di progetti e scelte riguardanti ambiti essenziali della nostra vita, dall’amministrazione pubblica alla sanità, dal campo della giustizia alla scuola, ecc., dovranno per forza trovar spazio, tra gli input che la formano, anche imperativi di ordine etico. Il comportamento oggettivamente riscontrabile dell’AI dovrà saperli manifestare. Questo diviene allora il problema politico di fondo: quali saranno i soggetti che ‘educheranno’ l’AI? I loro ‘padroni’? E chi sarà in grado di controllarli, se non governarli? Quale ordine politico potrebbe non essere costantemente in ritardo rispetto alla formidabile accelerazione del sistema, Gestell, tecnico-scientifico-economico? Questa è la domanda esatta. La Macchina non deciderà mai da sola – essa ha l’equivalente della nostra base genetica – e poi su di essa impara, si evolve, si può anche trasformare – ma sempre relativamente a quella base. Chi ha il potere di impostarla, di determinarne la direzione fondamentale? La perfetta distopia sarebbe: il soggetto-padrone dell’AI ne decide la struttura genetica e la Macchina autonomamente determina la sua evoluzione epigenetica. E il sistema così formato decide sul bios, sulla vita del nostro genere.

giovedì 3 aprile 2025

L’obbedienza cieca è l’origine dei più grandi mali dell’umanità.

 Oggi risuona nuovamente la chiamata alle armi. Credevamo che il mondo omerico con la sua celebrazione della forza e del “coraggio sul campo di battaglia” appartenesse a un lontano, remoto passato, quando l’umanità era più primitiva, più feroce, più brutale. Ma già due millenni fa c’era chi era insensibile a tali richiami. Si tratta del poeta Archiloco di Paro che abbandonò lo scudo nel bel mezzo della battaglia. La scelta di gettare lo scudo rappresenta una rottura con i valori del mondo omerico, dove ciò che contava era soprattutto l’onore e il desiderio di gloria.

Archiloco descrive la brutalità della guerra non celandola dietro artefici poetici, e la guerra, perduta ogni valenza epica, si mostra davanti agli occhi del poeta nella sua indecente nudità, mentre quest’ultimo rivolge la sua attenzione alla vita, che capisce essere più preziosa di qualsiasi cosa.

Il vero eroe è il disertore, colui che dice “no” alla guerra, colui che si rifiuta di obbedire, ciecamente obbedire, agli ordini dei suoi superiori diventando in tal modo un assassino, un Caino moderno. Cosa dissero infatti i carcerieri dei lager? Come si difesero i mediocri funzionari dell’apparato nazista? Non avevamo altra scelta, non potevamo agire diversamente, obbedivano a delle direttive. Ecco l’eterna giustificazione di chi abdicando alla propria umanità, alla propria coscienza, alla propria dignità di essere pensante in grado di discernere il bene del male, rinuncia al proprio essere uomo per trasformarsi in un ingranaggio del sistema.

Si possono compiere le peggiori atrocità ed essere convinti al tempo stesso di avere la coscienza a posto. Ciò accade quando accogliamo, senza averle sottoposto al vaglio della nostra coscienza, idee, atteggiamenti, pratiche condivise che proprio per il fatto di essere condivise ci paiono naturali. È questa la banalità del male di cui parla Anna Arendt: l’incapacità di pensare, di sentire, il piegare la propria coscienza alle leggi ed alle direttive imposte dall’alto, giuste o sbagliate che siano non fa differenza.

G.Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X (Cari amici, se volete mi potete seguire anche su Instagram, dove pubblicherò contenuti inediti, mi trovate la come “IlprofessorX”)

#società #socialmedia #filosofia

 

lunedì 24 marzo 2025

Dall'archivio di Giovanni Provvidenti.

 Il "fanciullo" e il suo egoismo necessario

La fanciullezza è quello stato di beatitudine istintiva che  ci fa apparire tutto naturale, necessario, privo di colpa. È l'innocenza di chi non ha più bisogno di dire a se stesso e agli altri: "questo è morale, questo è immorale, perciò questa è la mia colpa, questa è la mia innocenza"; è uno stato d'animo che considera ogni cosa mondana dal punto di vista del gioco, che è la vera necessità del "fanciullo". Il bambino, per esempio, prende sul serio il gioco, è già maturo per considerarlo la sua necessità, la sua dimensione vitale atemporale e aspaziale: infatti egli agisce e opera dimenticandosi del tempo che scandisce se stesso e dello spazio che occupa

e non si pone domande esistenziali di bene o di male, di buono o di cattivo, di giusto o ingiusto, perché sa ridere del tragico come del buffo. Il bambino non sa che cos'è etico o antietico, e se gli si impone un costume, una convenzione o un'abitudine morale, lo si violenta nelle sue intenzioni più innocenti e naturali, più recondite, è come se gli si reprimessero i suoi impulsi primigeni, che poi sono quegli stessi impulsi necessari per la sua crescita e formazione del carattere. Certo, per un bambino la disciplina è d'uopo in un contesto sociale collettivo, purché sia graduale e non tenda soltanto alla repressione. Il bambino soffre le repressioni, egli vuole soltanto essere felice e ridere: Il bambino SA RIDERE! E Saper ridere anche da adulti come l'innocente fanciullo è una grande serietà, una grande maturità. In verità non è seria nè matura l'ipocrita e deleteria commedia sociale e, spesso, personale, di coloro i quali non prendono troppo sul serio il gioco e pensano che la serietà sia anzitutto il lasciarsi trasportare dal fiume inesorabile delle età e "invecchiare" - spesso invecchiare anzitempo poiché anzitempo ci si è consegnati al "superfluo bisogno sociale" - o diventare "saggi", come se crescere dovesse voler dire inevitabilmente lasciarsi il fanciullo alle spalle e considerare maturo l'atto del "tribunale interiore", come se già non ci fossero i "tribunali esteriori" a farci sentire pesante l'esistenza; mi riferisco agli impenitenti dispensatori di giudizi e pregiudizi, ai dispensatori di valori e ideali, nonché di ideologie. I tribunali interiori sono quei luoghi terribili che occupano un territorio del tutto privato e personale dove ogni azione diviene l'imputata da giudicare, da giudicare in base a ciò che si è imparato a riconoscere come morale o immorale: l'essere ligi a quella sorta di amplesso spirituale che diviene flagellazione metafisica: poichè ci fa sentire sempre colpevoli di qualche cosa. In crisi senza posa verso qualche idolo sociale o culturale. Ma il "fanciullo", colui che considera l'innocenza dell'individuo il viandare nei sentieri della necessità, prescinde da siffatti tribunali e giudizi e non valuta in basa a un pregiudizio, ma in base alla necessità appunto. In base a un egoismo del tutto fisiologico. Anzi nemmeno si pone la domanda di cosa sia necessario per lui, perché lo sente, lo avverte istintivamente, fisiologicamente, e di conseguenza agisce. Ma non è propriamente un essere irrazionale assuefatto a un relativismo di maniera: il suo agire è sì istintivo, semplice, naturale, ma si fonda sulla prospettiva che egli ha di stesso, ma soprattutto sulla propria consapevolezza. Processa tale prospettiva e si rapporta col proprio io e con gli altri nella misura in cui il suo egoismo fisiologico comprende un bisogno di autoconservazione e dà a se stesso ciò che ritiene utile per il suo benessere. "Cosa è utile e buono per me?", egli chiede a stesso, e agisce di conseguenza. È un egoismo che non si pone domande e non cerca risposte, appunto perché non si sa tale, ma che riconosce istintivamente una necessità. Naturalmente tale individuo è consapevole di vivere nel bene e nel male mondano, nel buono e nel cattivo umano, nel giusto e nell'ingiusto che sitano dinanzi all'ingresso dei tribunali interiori come esteriori, non li può mica eludere e vivere tra essi come un imbelle o un ebete! Tuttavia riconosce, indovina la strada per superarli e non lasciarsi trattenere dalle soavi vocine di sirena di coloro che dicono: "cresci e guarda la realtà a te d'intorno; non sei più un bambino e non vivi in un mondo straniero, non puoi vivere alieno a te stesso: non sei diverso da noi", e lo vorrebbero sempre riportare indietro, al tutto uguale, al loro "altruismo", alla loro realtà quotidiana, come se la realtà fosse solo quella che loro vedono, vivono! Il "fanciullo" è quel tipo di individuo che considera l'altruismo: o un atto di mera magnanimità o un atto di mera privazione sacrificale, altrimenti non lo considera affatto e si tiene ben stretto il suo egoismo necessario. Il bambino, ad esempio, quando dà non dà per costrizione? Solo quando ne sente e ne avverte la necessità dà con mero slancio di generosità - senza peraltro chiedersi se è stato un gesto generoso o sacrificale: dona e basta ed è felice di averlo fatto, e sorride. SA RIDERE! E quando soffre cerca istintivamente ragioni per il proprio malessere interiore e nello stesso tempo cerca ogni via per trarsene fuori, perché vuole tornare a giocare e a ridere, AD ESSER SERIO E SERENO E MATURO PER LA SUA NECESSITÀ. E perché un individuo adulto non dovrebbe considerare la vita un gioco, una risata, persino quando la vita diventa dolore? "Saper ridere" persino del dolore più profondo eleva l'animo fino allo spirito libero! Ma perché si possa ridere ed esser liberi, cioè elevati e guardare alle tragedie mondane come fossero uno spettacolo, si deve prima santificare l'egoismo! Giovanni Provvidenti

 

 

domenica 23 marzo 2025

I Sumeri e il loro straordinario lascito

 I Sumeri furono una delle civiltà più avanzate e influenti dell’antichità, fiorendo tra il 4000 e il 2000 a.C. nella regione della Mesopotamia (attuale Iraq). Le loro innovazioni hanno avuto un impatto duraturo sulla storia dell’umanità. Tra le loro invenzioni documentate figurano:

1. La scrittura cuneiforme (Schriftsprache), il primo sistema di scrittura conosciuto

2. La ruota

3. Il sistema di irrigazione

4. L’agricoltura organizzata

5. La matematica, con un sistema sessagesimale (basato sul 60)

6. Il calendario lunare

7. La città-stato, con un’organizzazione sociale complessa

8. Gli ziqqurat, grandi strutture religiose e amministrative

9. I codici di legge, come il Codice di Ur-Nammu e il successivo Codice di Hammurabi

10. La letteratura, tra cui l’Epica di Gilgamesh, il più antico poema epico conosciuto

11. La navigazione fluviale

12. La produzione di mattoni cotti per la costruzione

13. La metallurgia del bronzo

14. La produzione della birra, con ricette documentate

15. Il sistema contabile basato su tavolette di argilla

16. Le prime scuole (Edubba), per la formazione degli scribi

17. La burocrazia governativa

18. L’architettura monumentale

19. L’astronomia, con la registrazione dei moti celesti

20. La musica e la costruzione di strumenti musicali

I Sumeri e l’astronomia

I Sumeri svilupparono un sistema avanzato di osservazione astronomica, fondamentale per la creazione del calendario e per il culto religioso. Tuttavia, l’idea che avessero mappe dettagliate del sistema solare come lo conosciamo oggi è una speculazione moderna senza fondamento archeologico. Alcune tavolette cuneiformi mostrano rappresentazioni del cielo e dei pianeti visibili a occhio nudo (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), ma non prove di una conoscenza precisa di Urano, Nettuno o Plutone.

Chi erano gli Anunnaki?

Gli Anunnaki erano un gruppo di divinità venerate dai Sumeri, Accadi, Babilonesi e Assiri. Il termine significa “coloro che discendono dal cielo” o “progenie del dio Anu” e indicava esseri divini con ruoli diversi nella mitologia mesopotamica. Le principali fonti su di loro provengono da testi religiosi e letterari, tra cui l’Epica di Gilgamesh, l’Atrahasis (che narra un diluvio simile a quello biblico) e l’Enuma Elish, il poema della creazione babilonese.

Negli anni ’70, lo scrittore Zecharia Sitchin reinterpretò i testi sumerici in chiave fantascientifica, sostenendo che gli Anunnaki fossero esseri extraterrestri provenienti dal pianeta Nibiru, che avrebbero creato gli esseri umani per sfruttarli come forza lavoro. Tuttavia, questa teoria non ha alcun riscontro accademico ed è considerata pseudoscienza.

Somiglianze con altre mitologie

Alcuni studiosi hanno notato similitudini tra la mitologia mesopotamica e altre tradizioni antiche, ma ciò si spiega con la diffusione culturale tra civiltà vicine. Ad esempio:

• Mitologia egizia: il dio Ra viaggia nel cielo con la sua “nave solare”, un concetto simbolico legato al ciclo del sole.

• Mitologia indù: i Vimana, menzionati nei testi sanscriti, sono descritti come carri celesti, ma non esistono prove che fossero navi spaziali reali.

• Dogon del Mali: il mito della stella Sirio è stato spesso reinterpretato in chiave aliena, ma la loro conoscenza di Sirio B è stata probabilmente influenzata da contatti con astronomi moderni.

• Culture precolombiane: Incas, Aztechi e Maya veneravano dèi solari, ma non esistono connessioni dirette con i Sumeri.

Il mistero del film “Anunnaki”

Nel 2006, il regista Jon Gress iniziò la produzione di una trilogia cinematografica intitolata Anunnaki, ispirata alle teorie di Sitchin. Tuttavia, il progetto fu interrotto e il film non venne mai distribuito. La spiegazione ufficiale è la mancanza di finanziamenti, ma alcuni teorici della cospirazione sostengono che il film sia stato bloccato per evitare che diffondesse una “verità scomoda”. Non esistono prove a supporto di questa ipotesi.

Conclusione

I Sumeri furono una civiltà straordinaria, la cui eredità ha plasmato il mondo moderno. Tuttavia, le teorie sugli Anunnaki come esseri extraterrestri derivano da interpretazioni moderne senza basi storiche o scientifiche. Sebbene affascinanti, queste idee rientrano più nella fantascienza che nella realtà archeologica.

Baisi Francesco

Le CELLULE TI ASCOLTANO, REAGISCONO, SI EMOZIONANO

 

Ti sei mai chiesto se il tuo corpo può ascoltare i tuoi pensieri e le tue emozioni?

Esistono tecniche che vanno oltre la semplice consapevolezza fisica e che suggeriscono un legame diretto tra la tua mente e le tue cellule. Queste pratiche ci permettono di comunicare con le nostre cellule, con l'intenzione di migliorare il nostro benessere.

PERSONALMENTE ho messo a punto una efficace tecnica che nel suo sviluppo comprende:

1. Meditazione delle cellule: Immagina di entrare in contatto con ogni cellula del tuo corpo, visualizzando una connessione energetica che porta guarigione, equilibrio e vitalità.

La consapevolezza del corpo diventerà il primo passo per inviare energia positiva alle tue cellule.

2. Puoi Prendere consapevolezza delle risposte del tuo corpo e allenarti a usare il respiro e la mente per influenzare positivamente il tuo stato fisico portando il corpo a uno stato di benessere ottimale.

3. Guarigione energetica:

Utilizzando il pensiero e l'intenzione, talvolta i giusti CRISRALLI potrai inviare energia direttamente alle tue cellule, favorendo lo stato di benessere generale.

4. Riprogrammare le cellule con affermazioni personalizzate e utilizzando anche codici e numeri: Le tue cellule reagiscono a pensieri ed emozioni.

Usare specifiche affermazioni positive per riprogrammare la tua mente e, di conseguenza, il tuo corpo RAPPRESENTA UN Grande CAMBIAMENTO! Ogni parola e numero e codice che pronuncerai influenzerà profondamente il tuo stato fisico.

Scopri il potere di un legame profondo tra la mente e il corpo!

by KatyaPerego

 

 

Lo gnosticismo

 

La credenza che siamo particelle di Dio discese in questo mondo prigione, che abbiamo perso memoria, identità e facoltà extrasensoriali, e che tutto ciò può essere riguadagnato attraverso l’anamnesi o attraverso la congiunzione mistica, è una delle vedute religiose più radicali conosciute in Occidente.

Lo Gnosticismo presume che il mondo apparente sia una frode che nasconde la vera realtá. Di qui il bisogno della rivelazione della Gnosi. Ci troviamo “segretamente” in una prigione gigante, “segretamente” in schiavitù. C’è una deliberata occlusione praticata su di noi da carcerieri ostili. La verità ci è deliberatamente nascosta per mantenerci nell’ignoranza. Se dovessimo conoscere la verità tutto ciò che vediamo si rovescerebbe. Rivelare è rovesciare, rovesciare è rivelare. C’è dunque nello Gnosticismo una base intrinseca rivoluzionaria e sovversiva che combatte le potenze che governano questo mondo.

Gli Gnostici distinguevano il vero Dio inconoscibile (Primo Eone) dal malvagio dio minore Yaldabaoth (o Demiurgo), di cui essi disprezzavano pertanto le leggi e l’universo materiale da lui creato per imprigionare le anime degli uomini. Gli Arconti sono concepiti come esseri invisibili che tengono in schiavitù psichica gli uomini, impedendo loro di conoscere la verità, di riconoscere in loro la scintilla divina che li accomuna a Dio. È questa la conoscenza di cui gli uomini sono defraudati.

(Sintesi estratta dall'Esegesi di Philip K. Dick, noto in vita soprattutto per i suoi romanzi di fantascienza, ma, dopo la morte, rivalutato per la sua "Esegesi", una mastodontica raccolta delle sue tormentate riflessioni personali, fortemente influenzate dallo Gnosticismo, di cui era appassionato studioso).




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 20 marzo 2025

Dall'archivio di Giovanni Provvidenti.

 

La filosofia come commedia della verità

Dopo Socrate il filosofo raramente è stato sognatore, un cuore tragico sospinto verso mete e miti da un afflatico romanticismo, il cui anelito fosse l'aire, lo slancio dato da un "istinto razionale", artistico nel pieno significato di arte e di estetica crepuscolare, di estasi dell'anima, quando l'anima diviene una vera e propria aurora dell'Essere. Insomma, il senso artistico del soggetto sognatore, perocchè il sogno dona agli istinti il senso drammatico della commedia e della liturgia dell'ego. Come se si volesse inseguire uno sconosciuto desiderio fuggito da un istinto ribelle, rivoluzionario; un desiderio fuggito da un sogno, e che vuole perseguire realtà e verità il cui principio sia null'altro che un riflesso onirico generato da un palpito che fugge dal cuore e si riversa magmatico nell'aurora dell'anima.

Chissà perché ci sono filosofi che pensano di dover essere ad ogni costo individui razionali, freddi, lucidi fino alla lucida follia dei sensi, logici, oggettivi e possessori del logos più veritiero del mondo, di più: possessori di tutte le realtà e verità del mondo! Altrimenti non vogliono credere e quando elogiano il dubbio mentono a se stessi, perché in realtà enunciano un mistificato necrologio... A meno che il filosofo non sia capace di diventare anche "poeta", allora il discorso cambia. Allora il filosofo "filosofeggia", cioè sogna, anela, vuole creare e, più che realtà e verità, aspira a creare commedie di scorci di panorami di realtà e verità; più che possibili futuri, attimi danzanti di eternità. Allora inventa i ditirambi coi quali imprime nelle parole il senso del dramma, del tramonto, la simmetria e la geometria dei segni, dei simboli, che lascia sì casualmente, ma anche volutamente, sparsi quà e là nei suoi discorsi; i suoi stessi discorsi assumono parvenza di drammaturgia. E fonda! Fonda la "sua scuola", i suoi discepoli, i suoi nuovi valori e principi archetipici, cui tutto il futuro dovrà fare i conti. I presocratici sono stati filosofi sognatori, poiché la loro filosofia era intrisa di una meravigliosa poetica. Per quanto sofisti, la loro tragicità li fece andare al di là dell'astrattismo teoretico, cui la logica della retorica e della dialettica non proponeva altro che l'eterno ritorno a una filosofia precedente, seppur trasfigurata in una presunta novità, allorché il sofismo dialettico susseguente ne mutava il contenuto sillogistico, cangiando la maschera in commedia; così ogni filosofo diventava maestro di un'altra maschera e commedia e di una nuova scuola del tragico. Purtroppo dopo Socrate la filosofia diviene un monolite, una fredda, logica razionalità, un vero e proprio nichilismo istintuale la qual volontà cognitiva era diventata oramai cognizione di causa di una altrettanto vera e propria dogmatica: brama di verità, di sapere, spesso mascherata di "opinione". Si elogiava ancora la tragedia, la commedia, il dubbio, ma guai ad afferrare per le corna il toro della verità e matarlo di santa ragione! Guai ad affermare che la loro commedia fosse oramai diventata noiosa, cioè ripetitiva e priva del fascino dualistico di Eros e Thanatos, Apollo e Dioniso; invero dell'istintualità più naturale che nell'epoca tragica dei greci trovava nella commedia la sua massima espressione - della commedia non solo teatrale, ma soprattutto della vita quotidiana -. Dopo Socrate dubitare della verità venne considerato pura pazzia. Atene facendo bere la cicuta a Socrate cercò di salvaguardare l'ultimo barlume di antico testamento ellenistico rimasto negli anfratti di qualche pensiero filosofico taletiano, anassimandriniano, eraclitiano; tuttavia Platone, con la sua Repubblica, diede al pensiero morente presocratico il colpo di grazia. Solo a partire dall'epoca illuministica della cosiddetta Rivoluzione Copernicana (che possiamo tranquillamente chiamare anche rivoluzione copernicana della filosofia) la filosofia ri-inizia a riprendersi il suo posto e il ruolo originario e preminente nella conoscenza pura, in quanto torna ad appropriarsi dei suoi specifici strumenti scientifico-teorici, che appunto gli erano propri nell'epoca presocratica. Fino ad arrivare a Nietzsche che con la sua ulteriore rivoluzione filosofica abbattè del tutto quel monumentale monolite di pensiero freddo e razionale, ridando alla tragedia il suo vigoroso, degno ruolo in commedia, fondando il teatro e l'anfiteatro della verità, mutando la verità nel luogo tragico ove il filosofo e la filosofia ritrovassero la loro "follia", il loro gioco e la fanciullezza del sogno, della metafora... della poesia. Personalmente mi sento erede di questa antica commedia, erede di questa antica filosofia come "commedia della verità

 

Filosofo cinese Lin Yutang

 


“Non hai più molti anni da vivere e, inoltre, non potrai portare nulla con te quando te ne andrai, quindi devi risparmiare senza sacrificare il tuo benessere.”

“Spendi il denaro che deve essere speso, goditi ciò che deve essere goduto e dona ciò che è possibile.”

“Non preoccuparti di cosa accadrà dopo la tua morte, perché quando diventerai polvere, non sentirai se sei lodato o criticato, se sei visitato al cimitero o dimenticato.”

“Il momento per godersi la vita è adesso, e i beni che hai guadagnato con fatica devono essere goduti.”

“Non preoccuparti troppo per i tuoi figli, poiché avranno il loro destino e troveranno la loro strada.”

“Prenditi cura, soprattutto, dei tuoi nipoti, amali, viziali e cerca di goderteli finché puoi.”

“La vita deve essere qualcosa di più che lavorare dalla culla alla tomba.”

“Ogni giorno svegliati per goderti un altro giorno di vita senza litigare con nessuno o portare rancore.”

“Non aspettarti troppo dai tuoi figli.”

“Anche se i figli si prendono cura dei genitori, saranno sempre occupati con il loro lavoro, i loro impegni e la loro vita.”

“Molti figli che non si interessano ai genitori litigheranno per i loro beni ancora prima che siano morti, desiderando la loro dipartita per ereditare proprietà e ricchezze.”

“Se hai già 65 anni o più, non sacrificare la tua salute per il denaro lavorando eccessivamente, perché scaveresti solo la tua tomba in anticipo.”

“Di mille ettari coltivati a riso, potrai consumarne solo mezza tazza al giorno, e di mille palazzi, avrai bisogno solo di otto metri quadrati per dormire la notte. Quindi, se hai cibo e denaro per le tue necessità, non ti serve altro.”

“Cerca di vivere felice, perché hai una sola vita.”

“Non paragonarti agli altri misurando fama, denaro o status sociale, né vantandoti se i tuoi figli hanno più successo di altri. Piuttosto, sfidali a raggiungere la felicità, la salute, la gioia e una vita di qualità.”

“Accetta le cose che non puoi cambiare, perché preoccuparsene troppo potrebbe danneggiare la tua salute.”

“Crea il tuo benessere e trova la tua felicità facendo ogni giorno qualcosa che ti diverta e ti rallegri.”

“Un giorno senza felicità è un giorno perso.”

“Con un animo positivo, la malattia si cura; con uno spirito allegro, la guarigione è più veloce o la malattia nemmeno si avvicina.”

“Con un buon carattere, esercizio adeguato, cibo sano e un consumo ragionevole di vitamine e minerali, avrai una vita sana e piacevole.”

“Ma, soprattutto, impara ad apprezzare la bontà della famiglia e degli amici, perché saranno loro a farti sentire giovane, ricordandoti i bei momenti e le esperienze interessanti della tua vita.”

“Si dice che chi perde il tetto, guadagni le stelle. Ed è vero.”

“Il tempo e le opportunità sono come l'acqua di un fiume: non puoi toccarle due volte, perché una volta passate, non torneranno più.”

“Approfitta di ogni minuto della tua vita e non rifiutare le opportunità di scoprire il mondo e goderti le cose belle, perché potrebbero non ripresentarsi mai.”

“Non giudicare le persone dall’aspetto, perché cambia con il tempo.”

“Non cercare la persona perfetta, perché non esiste.”

“Cerca, se lo desideri, qualcuno che ti apprezzi per quello che sei; e se non lo trovi, goditi la tua solitudine, che è molto meglio di una cattiva compagnia.”

“Credi in Dio, qualunque sia il concetto che ne hai, e cerca di goderti la vita, che è molto breve. Goditi la famiglia e gli amici, perché presto o tardi lascerai questo mondo, e nessuno ti ringrazierà.”

“Che la salute e il benessere siano sempre con te.”

~ Lin Yutang

 

 

 

 

 

sabato 1 marzo 2025

𝗟𝗔 𝗠𝗢𝗥𝗧𝗘 𝗘̀' 𝗜𝗟 𝗣𝗜𝗨̀ 𝗖𝗟𝗔𝗠𝗢𝗥𝗢𝗦𝗢 𝗘𝗤𝗨𝗜𝗩𝗢𝗖𝗢 𝗗𝗘𝗟𝗟𝗔 𝗦𝗧𝗢𝗥𝗜𝗔 𝗨𝗠𝗔𝗡𝗔

 (𝗣𝗿𝗼𝗳. 𝗩𝗶𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶𝗼 𝗠𝗮𝗿𝗰𝗵𝗶)

La morte è il più clamoroso equivoco della storia umana.

Dai più eminenti uomini di scienza dell’ultimo secolo scopriamo che l’Universo è tutto Pensiero e che la Realtà esiste solo in ciò che pensiamo

L’energia è quella manifestazione che fa accadere le cose e gli eventi. Essendo di carattere vibrazionale essa si manifesta in una incommensurabile vastità di forme e di aspetti. Dietro tutte queste apparenze si cela una realtà legata a un campo di frequenze comprese in bande, ciascuna delle quali ha uno sbocco nel panorama delle cose materiali che noi vediamo.

Sofisticate tecnologie dimostrano che l’uomo non muore, quando sembra separarsi dalla sua carica energetica che lo vivifica, perché ciò che si stacca dal soma migra e fluisce verso altre locazioni.

Il nostro apparato sensoriale è limitato e quindi inadeguato a permetterci di percepire la realtà al suo livello più profondo.

Occorre comprendere che l’anima che sta per trapassare non è il corpo, bensì la vita stessa e che la sua natura non è materica ma spirituale e che al contrario del suo corpo psico-fisico non conosce mutamento, né decadimento.

Inconsciamente non possiamo sopportare di morire in quanto sappiamo che non è possibile farlo. Quando l’Io ben centrato ne ha la suddetta visione, allora siamo fuori dal paradigma spazio-temporale.

Il tutto dipende dalla qualità del nostro livello di coscienza.

Se non modifichiamo il nostro atteggiamento mentale, se non cambiamo lo stato della nostra visione del mondo, non potremo scegliere il mondo successivo, ma ci troveremo a ripetere ciò che siamo qui con le stesse difficoltà e le stesse limitazioni.

Il paradiso infine, non è un luogo, ma è una dimensione della coscienza.

Il tempo non esiste.

Quando il tempo incomincia a scorrere? L’etimologia della parola ha una derivazione di origine indo-europea che significa dividere.

Quando nasce il tempo nasce anche il concetto di morte.

Anche il Big Bang non è mai avvenuto

Si è scoperto di recente un “Campo Informazionale” che permea tutto.

È infinito. Non ha inizio e non ha fine. Noi vediamo attraverso i nostri occhi tutte le cose divise, frantumate, separate e invece tutto è Uno. Il viaggio dell’evoluzione è dall’inconscio al conscio.

Quando mi chiedono cosa c’era prima del tempo e della morte rispondo che tutto ciò che esiste è AMORE.

Questa parola non è legata a sentimento, affetto o passione, come lo conosciamo oggi, ma significa A-MORS non morte.

Tutto vive, dall’atomo alla più grande galassia.

Abbiamo verificato che anche le piante e i minerali vivono, su piani diversi.

Tutto è costituito da una sola sostanza, con manifestazioni diverse.

Questa sostanza è fisicamente e psichicamente pensante.

Ilya Prygogine, che è stato il più grande chimico vivente (premio Nobel nel 1977), nel corso delle sue ricerche chimiche della materia organica, si è accorto che ogni molecola viveva e sapeva perfettamente quello che faceva ogni altra molecola a distanze macroscopiche.

Anche nell’esperimento che fece Pauli (fisico) le particelle separate (fotoni) che si trovavano nello stesso livello energetico o stato quantico, pur lanciate a distanze differenti, rimanevano sempre collegate.

Tutto è interconnesso e non-locale (entanglement).

Le informazioni sono istantanee, perché abbiamo scoperto che le particelle come possono essere ad esempio gli stessi elettroni/processo o evento, non sono masserelle solide ed inerti, ma nuclei del tutto inconsistenti che rivelano di essere “un bit concentrato di informazione”, andando così a costituire un campo informazionale.

L’unica cosa solida allora di cui si può parlare di questa materia, che sembrava fatta di “mattoni atomici”, è invece che assomiglia più ad un PENSIERO.

Le onde e le particelle (“ondicelle”) in realtà sono le solite. Esse si trovano sia qui che ovunque, Ciò perchè esse, oltre ad essere se stesse , sono anche lo spazio che intercorre tra loro.

E quindi non hanno neppure alcun bisogno di comunicare tra loro, perchè sono la stessa cosa dello “spazio”.

Ed in più esse non hanno nessuna ragione per doversi connettere, perchè non sono mai state disconnesse o disgiunte.

In sintesi, sono un ologramma, un “Tutto-parte”, una versione su scala più ridotta del Cosmo, dell’ Intero Corpo organico universale. Una goccia concentrata e indissolubile dell’infinito oceano energetico, detto Coscienza non locale.

La Coscienza dunque non sta nel cervello ma nel Campo.

Sia la fisica che la neurofisiologia che la quantistica concordano su questo punto.

Non è il cervello che produce il pensiero, ma è il PENSIERO o COSCIENZA che edifica il cervello.

Max Planck, padre della teoria dei quanti, scioccò il mondo nel 1944 quando affermò che esiste un’unica matrice energetica “intelligente” da cui ha origine tutto, il visibile dall’invisibile.

Con questa implicazione sconcertante il mondo scopriva per la prima volta che Tutto è coscienza.

Abbiamo oggi gli strumenti che possono vedere che intorno a noi esiste un globo luminoso. Un nostro prolungamento (un duplicato immateriale). È stato definito un campo di ultra-luce.

Noi non lo vediamo con gli occhi e anche con gli strumenti possiamo vedere fino ad un certo punto.

Questo campo è milioni di volte più sottile della più sottile materia. Ha una frequenza vibrazionale di 10 alla 26 Hz.

Esso è più sensibile e impressionabile della più sensibile ed impressionabile pellicola fotografica.

Anche la PNEI (psiconeuroendocrinoimmunologia) ha riconosciuto che gli antichi avevano ragione.

Noi siamo un fascio di vibrazioni di cui l’aspetto fisico, la forma fisica è solo il nucleo più denso.

La luce che vedono le persone che hanno esperienze di premorte (NDE), siamo noi stessi, ciò di cui siamo costituiti.

Un fenomeno straordinario, che merita di essere chiamato con il nome di AUTOPSIA (composto da “autos”, stesso e “opsis”, vista), cioè “VISTA DI SE STESSO”.

E l’Autopsicità (quale può essere quella dell’ esperienza totale del Divino) è una situazione che implica la visione istantanea e diretta di una “partitura” in cui figurano tutti gli aspetti del Libro della Vita, cioè di una composizione universale, disposta in più mondi.

Qualcuno ha detto: “Chiarisci il tuo senso e illuminerai il mondo”.

Se vuoi sapere come fare, fai come fece il maestro Zen Poshang.

Quando gli fu chiesto come si cerca la natura del Buddha (Dio), Egli rispose: “È come cavalcare il Bue, in cerca del Bue”.

Prof. Vittorio Marchi

martedì 25 febbraio 2025

 

 Di Giovanni Provvidenti.

CUOR DI DRAGO

Giovane amico che vuoi diventare uno spirito libero e andare al di là di ogni convenzione rituale e filosofica, ti dico ciò che io ho imparato quando ho voluto la stessa cosa che ora vuoi tu.

Ti senti libero nello spirito e forte nella volontà? Allora il tuo cuore deve diventare intrepido come quello di un drago e dal tuo petto devi voler vederti fuggire e volare alto il tuo pensiero più vigoroso! Cosa importano di virtù e di valori e di culture domestiche: tutto ciò fanno del tuo senno un somigliante a un sodo e pigro deretano: poiché ottuso e indolente verso ogni "pensiero attivo", selvaggio, libero, leonino - "dragoniano"!

I palpiti del tuo cuore devono precedere le tue brame; i palpiti del tuo cuore devono diventare tutte frecce del desiderio e inseguire i tuoi sogni, fino a giungere là dove una meta e cento mete attendono di farsi bersaglio! Perciò tu stesso devi creare il fuoco che in te arde e con esso volerti bruciare e incenerire, e dalle tue stesse ceneri rinascere, come tu fossi la leggendaria Araba Fenice, dando origine al drago del tuo cuore! Oh, non senti già il suo alito di fuoco e il suo irresistibile scalpitio dentro di te? Persino nel profondo del tuo più ignoto anfratto onirico! Ma bada che il "sogno del drago" non è la sedia a dondolo di un'anima mezzo assopita e rannicchiata accanto al camino delle certezze ataviche, col capo ciondolante di quà e di là, come fosse il pendolo di un orologio che segna il tempo senza tempo di un istante che non và oltre un tic e tac, sempre identico a se stesso! Sappi, mio giovane amico, che ben desto è lo spirito pugnace che esplora l'attimo ed esperimenta se stesso inoltrandosi nel suo abisso più ignoto: proprio là, ove risiedono i mostri e gli enigmi e tutte le stranezze che non hai mai saputo chiamare per nome - forse non hai nemmeno mai voluto vedere i loro riflessi salire in auge dal tuo specchio interiore.

La prima esperienza del novizio drago è un audace e pericoloso volo sopra "l'abisso uomo": guardare là e al di là d'ogni orizzonte cognito senza fuggire al di quà di una rassicurante visione mascherata di certezza: appunto la coscienza atavica e tradizionale che fino ad ora non t'hanno permesso di andare oltre un millimetro dal tuo perimetro umano, troppo umano. Volar e sostar sopra l'abisso uomo lo può soltanto un drago. Pur tremando e provando le vertigini di tutti i paradossi onirici, reali e apparenti, esso non fugge, anzi vi precipita fin dentro le profonde viscere e, con l'ironia e il coraggio di chi conobbe tragedie e paradossi dell'anima, lotta contro se stesso, perché vuole domare i suoi mostri ed enigmi e superare tutti i suoi paradossi: poiché vuole altresì un io signore di tutti i suoi istinti. Tutto ciò ti appare immane e oltremodo difficile? Ah! Lo è! Eccome se lo è! Ma se vuoi diventare un vero spirito libero, al tuo cuore devi saper creare le ali e farlo volare coraggiosamente al di sopra di abissi, sogni e realtà e poi farlo diventare remingo in mondi noti e ignoti; andare verso luoghi inesplorati tra la notte, la mezzanotte e l'aurora: laddove iniziano tutte le danze dello spirito libero!

Che il tuo cuore, rifugio di caos e caso, sia dunque l'alcova di una nuova stella danzante! Cuor materno e paterno, dove ogni palpito sia figlio di un grande anelito. Dallo zero allo zenit: sia questo l'infinito che insegue il drago del tuo cuore!

 L'abitudine, come la Circe della felicità, può condurre a una visione distorta del nostro rapporto con la gioia. Quando ci abituiamo a rinunciare alla possibilità di vivere il momento con pienezza, rischiamo di confondere la felicità con un'illusione irraggiungibile. La felicità non è un traguardo da inseguire, ma una qualità da coltivare nell'attimo presente, libero da condizionamenti e aspettative razionali. Come il fanciullo che vive nel qui e ora, la felicità si trova nell'arte di lasciarsi sorprendere dal mondo, di saper cogliere le piccole sfumature della vita. La ricerca incessante di un appagamento futuro ci allontana dal presente, dove la vera ricchezza risiede: la felicità è un'emozione che nasce dal saper vivere intensamente l'attimo, senza paura di perderlo.

sabato 22 febbraio 2025

Dall'archivio di Giovanni Provvidenti. L'abitudine è la Circe della felicità?

 La stragrande maggioranza delle persone dicono che la felicità o è irraggiungibile oppure troppo effimera per essere riconosciuta e quindi colta; con un dire che è diventata una vera abitudine: forse perché ci si vuole convincere che la felicità è davvero irraggiungibile o effimera? E a chi mostra felicità lo si guarda quasi con patetico sospetto o paternalismo per non sentirsi addosso il peso di un sentimento reconditamente rancoroso: "tanto durerà poco! Che ne sa questo felice del mordi e fuggi della sua emozione! È un illuso perché la felicità è illusione, è speranza, è il giogo giostrale della mente quando fantastica". Siffatta figura retorica è molto consolatoria ... Di certo è che se ci si convince che tale conclusione sia vera, vera diventa. Forse è vero, la felicità è irraggiungibile o troppo effimera, ma è vero solo per loro.

Oh insomma, ci si dovrebbe disabituare alla troppa razionalità, alla troppa oggettività altrimenti tutto diventa relativismo e non prospettiva, e in mancanza di prospettive poetiche e di aneliti tutto diventa logico, razionale, matematico, algoritmico, relativo ad una presunta oggettività dei fatti: ma un pò di "poesia" e un pò di sano romanticismo non guastano mica l'intelletto! Allora si potrebbero cogliere tutte quelle nuances che la natura offre come scorci, che la vita offre come trasogni.

Perchè, solitamente, non si è felici? Perché le persone sono troppo abituate, troppo indaffarate a risolvere piccoli o grandi problemi esistenziali, quotidiani o di sistema, oppure troppo assuefatte ad insensati edonismi (alcool, droghe, acquisti fatti in modo convulsivo e senza criterio di vero bisogno, sì perché anche andar a far compere è diventato una sorta di edonismo), ci si procura insomma emozioni che durano tanto quanto un battito di ciglia; ed è per ciò che si ritiene la felicità qualcosa di effimero, fugace e la si lascia andare per così dire nell'attimo fuggente. Se invece si diventasse capaci di riappropriarsi del proprio tempo e dei propri sguardi e degli scorci che dinnanzi ci si stagliano - ah quante piccole cose si riuscirebbero a cogliere, a percepire! La felicità è fatta di cose "piccole" e semplici e non è affatto vero che è irraggiungibile o effimera, il limite è solo un convincimento autoindotto, il limite è ... un limite! Poiché promuove il senso dell'appagamento costante: la contentezza di ritiene che chi si accontenta gode. Ma se si vivesse magicamente il momento nemmeno ci si renderebbe conto del tempo, dell'attimo fuggente, del nichilistico edonismo e sapremmo cogliere le "occasioni" che l'attimo fuggente ci offre. L'attimo fuggente ce lo dobbiamo creare, non attenderlo come si attende un momento fortunato. L'attimo, invero, è tutta l'eternità che possiamo sottrarre al tempo e il tempo piegarlo al nostro volere. Infine la felicità non bisogna cercarla, inseguirla: più lo si fa più non la si raggiunge - come quel famoso paradosso di Achille e la tartaruga -, la felicità è saper vivere l'attimo, è l'attimo è l'eternità: una felicità senza fine!

Vivi l'attimo e sii simile al fanciullo: e di cosa ha più di tutto il fanciullo se non di vivere l'attimo?