Washington, Berlino, Roma: una firma sul genocidio
Titolo: “Gaza Genocide: a collective
crime”. Sigla A/80/492. Un documento esplosivo, classificato advance unedited
version, è stato trasmesso all’Assemblea generale dell’ONU il 20 ottobre 2025.
Firmato: Francesca Albanese, relatrice speciale sui diritti umani nei Territori
palestinesi occupati.
Parla senza mezzi termini di
genocidio in corso a Gaza. Non un eccesso di linguaggio: un atto d’accusa
fondato su mesi di prove, testimonianze, archivi. “Una distruzione pianificata
del popolo palestinese come gruppo nazionale.”
Il rapporto elenca i segni
dell’annientamento: uccisioni di massa, fame deliberata, distruzione di
ospedali e scuole, trasferimenti forzati, assedio totale. Tutto riconducibile
alla definizione giuridica di genocidio.
Ma il punto più dirompente non
riguarda Israele. Riguarda chi lo arma.
Francesca Albanese parla di una
“catena di complicità internazionale”: Stati che forniscono armi, coperture
diplomatiche, silenzi compiacenti.
Sotto accusa, più di tutti, tre
capitali: Washington, Berlino, Roma. Tre governi che hanno continuato a firmare
contratti e inviare armi mentre le bombe cadevano su Gaza.
Gli Stati Uniti ovviamente guidano il
flusso di morte: miliardi di dollari, arsenali, veti ONU seriali. Dal 1967
Israele è il principale beneficiario dei fondi militari americani: 3,8 miliardi
l’anno, un flusso costante e senza pari. Il boom dal 7 ottobre. 14,3 miliardi
nell’ottobre 2023, altri 26,4 miliardi approvati nell’aprile 2024.
Documenti riservati parlano di 742
consegne di armi in due anni, vendite da decine di miliardi approvate in
silenzio, spesso fuori dai circuiti di controllo del Congresso. Ad aprile 2025
risultano attivi 751 contratti per un valore complessivo di 39,2 miliardi di
dollari: un business colossale - una economia del Genocidio - che salda in modo
indissolubile Washington e Tel Aviv.
Armi ma anche copertura politica.
Dopo il 7 ottobre,la Casa Bianca ha posto sette veti all’ONU per bloccare
risoluzioni sul cessate il fuoco. Una complicità assoluta.
Dopo gli Stati Uniti c’è la Germania,
schiacciata dal peso del proprio passato: oggi secondo esportatore di armi
verso Israele. E l’Italia, terza rotella dell’ingranaggio, non è da meno: nel
dossier ONU compaiono componenti per caccia F-35, sistemi di puntamento e
difesa, tecnologia “dual use” mascherata da cooperazione industriale. Roma ha
avuto un ruolo anche nell’addestramento militare, con esercitazioni congiunte,
scambi di personale e corsi per piloti e tecnici israeliani.
Il ministero di Crosetto ha mantenuto
attive le licenze, nonostante le risoluzioni ONU e la legge 185/90 vietino
esportazioni verso Paesi coinvolti in conflitti armati o responsabili di
violazioni dei diritti umani. Dietro ogni fornitura c’è una firma ministeriale,
una scelta politica, un atto di complicità. L’Italia di Giorgia Meloni ha
scelto l’obbedienza atlantica, senza se e senza ma, a scapito della legalità
internazionale.
Tant’è che nelle settimane scorse, un
gruppo di avvocati e giuristi internazionali ha presentato alla Corte penale
internazionale una denuncia per complicità in genocidio contro il governo
Meloni, accusandolo di aver sostenuto Israele con forniture militari e
cooperazione strategica.
Con il rapporto A/80/492, la
questione di Gaza entra in una nuova fase politica e giuridica. Mai prima d’ora
un alto funzionario delle Nazioni Unite aveva usato il termine genocidio con
tanta nettezza. Le conseguenze - diplomatiche e morali - sono ancora da
misurare, ma una cosa è certa: la verità, questa volta, è scritta nero su
bianco nei registri dell’ONU.
Alfredo Facchini
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