Il "fanciullo" e il suo egoismo necessario
La fanciullezza è quello stato di
beatitudine istintiva che ci fa apparire
tutto naturale, necessario, privo di colpa. È l'innocenza di chi non ha più
bisogno di dire a se stesso e agli altri: "questo è morale, questo è
immorale, perciò questa è la mia colpa, questa è la mia innocenza"; è uno
stato d'animo che considera ogni cosa mondana dal punto di vista del gioco, che
è la vera necessità del "fanciullo". Il bambino, per esempio, prende
sul serio il gioco, è già maturo per considerarlo la sua necessità, la sua
dimensione vitale atemporale e aspaziale: infatti egli agisce e opera
dimenticandosi del tempo che scandisce se stesso e dello spazio che occupa
e non si pone domande esistenziali di
bene o di male, di buono o di cattivo, di giusto o ingiusto, perché sa ridere
del tragico come del buffo. Il bambino non sa che cos'è etico o antietico, e se
gli si impone un costume, una convenzione o un'abitudine morale, lo si violenta
nelle sue intenzioni più innocenti e naturali, più recondite, è come se gli si
reprimessero i suoi impulsi primigeni, che poi sono quegli stessi impulsi
necessari per la sua crescita e formazione del carattere. Certo, per un bambino
la disciplina è d'uopo in un contesto sociale collettivo, purché sia graduale e
non tenda soltanto alla repressione. Il bambino soffre le repressioni, egli
vuole soltanto essere felice e ridere: Il bambino SA RIDERE! E Saper ridere
anche da adulti come l'innocente fanciullo è una grande serietà, una grande
maturità. In verità non è seria nè matura l'ipocrita e deleteria commedia
sociale e, spesso, personale, di coloro i quali non prendono troppo sul serio
il gioco e pensano che la serietà sia anzitutto il lasciarsi trasportare dal
fiume inesorabile delle età e "invecchiare" - spesso invecchiare
anzitempo poiché anzitempo ci si è consegnati al "superfluo bisogno
sociale" - o diventare "saggi", come se crescere dovesse voler
dire inevitabilmente lasciarsi il fanciullo alle spalle e considerare maturo
l'atto del "tribunale interiore", come se già non ci fossero i
"tribunali esteriori" a farci sentire pesante l'esistenza; mi
riferisco agli impenitenti dispensatori di giudizi e pregiudizi, ai
dispensatori di valori e ideali, nonché di ideologie. I tribunali interiori
sono quei luoghi terribili che occupano un territorio del tutto privato e
personale dove ogni azione diviene l'imputata da giudicare, da giudicare in
base a ciò che si è imparato a riconoscere come morale o immorale: l'essere
ligi a quella sorta di amplesso spirituale che diviene flagellazione
metafisica: poichè ci fa sentire sempre colpevoli di qualche cosa. In crisi
senza posa verso qualche idolo sociale o culturale. Ma il
"fanciullo", colui che considera l'innocenza dell'individuo il
viandare nei sentieri della necessità, prescinde da siffatti tribunali e
giudizi e non valuta in basa a un pregiudizio, ma in base alla necessità
appunto. In base a un egoismo del tutto fisiologico. Anzi nemmeno si pone la
domanda di cosa sia necessario per lui, perché lo sente, lo avverte
istintivamente, fisiologicamente, e di conseguenza agisce. Ma non è
propriamente un essere irrazionale assuefatto a un relativismo di maniera: il
suo agire è sì istintivo, semplice, naturale, ma si fonda sulla prospettiva che
egli ha di stesso, ma soprattutto sulla propria consapevolezza. Processa tale
prospettiva e si rapporta col proprio io e con gli altri nella misura in cui il
suo egoismo fisiologico comprende un bisogno di autoconservazione e dà a se
stesso ciò che ritiene utile per il suo benessere. "Cosa è utile e buono
per me?", egli chiede a stesso, e agisce di conseguenza. È un egoismo che
non si pone domande e non cerca risposte, appunto perché non si sa tale, ma che
riconosce istintivamente una necessità. Naturalmente tale individuo è
consapevole di vivere nel bene e nel male mondano, nel buono e nel cattivo
umano, nel giusto e nell'ingiusto che sitano dinanzi all'ingresso dei tribunali
interiori come esteriori, non li può mica eludere e vivere tra essi come un
imbelle o un ebete! Tuttavia riconosce, indovina la strada per superarli e non
lasciarsi trattenere dalle soavi vocine di sirena di coloro che dicono:
"cresci e guarda la realtà a te d'intorno; non sei più un bambino e non vivi
in un mondo straniero, non puoi vivere alieno a te stesso: non sei diverso da
noi", e lo vorrebbero sempre riportare indietro, al tutto uguale, al loro
"altruismo", alla loro realtà quotidiana, come se la realtà fosse
solo quella che loro vedono, vivono! Il "fanciullo" è quel tipo di
individuo che considera l'altruismo: o un atto di mera magnanimità o un atto di
mera privazione sacrificale, altrimenti non lo considera affatto e si tiene ben
stretto il suo egoismo necessario. Il bambino, ad esempio, quando dà non dà per
costrizione? Solo quando ne sente e ne avverte la necessità dà con mero slancio
di generosità - senza peraltro chiedersi se è stato un gesto generoso o
sacrificale: dona e basta ed è felice di averlo fatto, e sorride. SA RIDERE! E
quando soffre cerca istintivamente ragioni per il proprio malessere interiore e
nello stesso tempo cerca ogni via per trarsene fuori, perché vuole tornare a
giocare e a ridere, AD ESSER SERIO E SERENO E MATURO PER LA SUA NECESSITÀ. E
perché un individuo adulto non dovrebbe considerare la vita un gioco, una
risata, persino quando la vita diventa dolore? "Saper ridere" persino
del dolore più profondo eleva l'animo fino allo spirito libero! Ma perché si
possa ridere ed esser liberi, cioè elevati e guardare alle tragedie mondane
come fossero uno spettacolo, si deve prima santificare l'egoismo! Giovanni Provvidenti