Si può scrivere poesia mentre il mondo collassa?
Da giorni questa domanda si insinua nelle mie giornate come un taglio non
ricucito, pulsante, mi cammina accanto, si siede con me quando provo a
scrivere. Che cosa significa scrivere poesia quando cadono bombe su ospedali,
quando i bambini hanno nomi che durano meno di un notiziario? La parola trema,
la mano incespica sulle parole, si trattiene, lo sento, approccio,
idea-pensiero-blocco, accensione neurale, segnale di stop, neurochimica della
negazione. La poesia non consola, non ripara, non salva. E allora cosa le resta
da fare? Tacere? Ma non come chi si volta: tacere con vergogna, con le mani
sporche, con la consapevolezza che anche il silenzio ha un peso, e che a volte
pesa quanto la voce, forse di più, quanto pesa la voce? Poi c'è chi scrive,
noncurante, leggero, come se il peso della Storia fosse solo un passeggero
tumulto del cosmo, un'esplosione solare che nessuno coglie, nessun giudizio,
isolamento, arte per l'arte. Infine c'è chi scrive da dentro, dentro, in Sè, ma
non per il per sé. I poeti da Gaza lo fanno. Scrivono. Denunciano. Resistono.
Le loro parole grondano fumo e sangue, e hanno il coraggio che io oggi sento di
non avere. Perché io, qui, al sicuro, vedo l’orrore, ma non lo sento davvero.
Non lo attraverso. Lo penso, lo immagino, lo temo. E questo mi inchioda. Perché
la parola, quando è troppo distante, rischia di diventare gesto estetico, forma
pulita sopra lo sporco. Rischia di essere ipocrita.
Adorno, con la sua celebre sentenza sull'impossibilità della poesia dopo
Auschwitz, non intendeva affermare una proibizione definitiva, ma lacerare il
rapporto automatico con la forma. Dopo l’orrore, la lingua è stata compromessa.
È come se il senso stesso della parola poetica avesse bisogno di essere rimesso
in discussione, riformulato, frantumato. La parola diventa una escoriazione
sacra, centellinata, distillata, perché il senso si perde, a me sfugge
dappertutto. Per questo penso ai poeti in trincea. Ungaretti scriveva dalle
buche fangose del Carso. I versi erano cortissimi, come respiri spezzati tra le
cannonate. Eppure, erano versi. Erano vita aggrappata a un frammento. Penso a
Wilfred Owen, a Isaac Rosenberg, a Khulood Al-Ajarma oggi, a Refaat Alareer, il
cui ultimo verso è stato il suo stesso testamento. Penso a chi ha scritto col
sangue sul muro, con la voce tremante prima del boato. E infine penso a me. Al
mio silenzio. Alle pagine che restano bianche per giorni, mentre ascolto voci
rotte da sotto le macerie. Il mio silenzio non è quiete. È inquietante
paralisi. È sentire che ogni parola rischia di usurpare, di sovrapporsi, di
profanare. La poesia non ci assolve mai. È il punto in cui la colpa si fa
linguaggio. E in cui il linguaggio si sa, ci parla, ed è finalmente, fatalmente
inadeguato.(Harte Mysia)
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