lunedì 16 giugno 2025

SCRIVERE POESIA TRA LE MACERIE DEL MONDO

 

Si può scrivere poesia mentre il mondo collassa?

Da giorni questa domanda si insinua nelle mie giornate come un taglio non ricucito, pulsante, mi cammina accanto, si siede con me quando provo a scrivere. Che cosa significa scrivere poesia quando cadono bombe su ospedali, quando i bambini hanno nomi che durano meno di un notiziario? La parola trema, la mano incespica sulle parole, si trattiene, lo sento, approccio, idea-pensiero-blocco, accensione neurale, segnale di stop, neurochimica della negazione. La poesia non consola, non ripara, non salva. E allora cosa le resta da fare? Tacere? Ma non come chi si volta: tacere con vergogna, con le mani sporche, con la consapevolezza che anche il silenzio ha un peso, e che a volte pesa quanto la voce, forse di più, quanto pesa la voce? Poi c'è chi scrive, noncurante, leggero, come se il peso della Storia fosse solo un passeggero tumulto del cosmo, un'esplosione solare che nessuno coglie, nessun giudizio, isolamento, arte per l'arte. Infine c'è chi scrive da dentro, dentro, in Sè, ma non per il per sé. I poeti da Gaza lo fanno. Scrivono. Denunciano. Resistono. Le loro parole grondano fumo e sangue, e hanno il coraggio che io oggi sento di non avere. Perché io, qui, al sicuro, vedo l’orrore, ma non lo sento davvero. Non lo attraverso. Lo penso, lo immagino, lo temo. E questo mi inchioda. Perché la parola, quando è troppo distante, rischia di diventare gesto estetico, forma pulita sopra lo sporco. Rischia di essere ipocrita.

Adorno, con la sua celebre sentenza sull'impossibilità della poesia dopo Auschwitz, non intendeva affermare una proibizione definitiva, ma lacerare il rapporto automatico con la forma. Dopo l’orrore, la lingua è stata compromessa. È come se il senso stesso della parola poetica avesse bisogno di essere rimesso in discussione, riformulato, frantumato. La parola diventa una escoriazione sacra, centellinata, distillata, perché il senso si perde, a me sfugge dappertutto. Per questo penso ai poeti in trincea. Ungaretti scriveva dalle buche fangose del Carso. I versi erano cortissimi, come respiri spezzati tra le cannonate. Eppure, erano versi. Erano vita aggrappata a un frammento. Penso a Wilfred Owen, a Isaac Rosenberg, a Khulood Al-Ajarma oggi, a Refaat Alareer, il cui ultimo verso è stato il suo stesso testamento. Penso a chi ha scritto col sangue sul muro, con la voce tremante prima del boato. E infine penso a me. Al mio silenzio. Alle pagine che restano bianche per giorni, mentre ascolto voci rotte da sotto le macerie. Il mio silenzio non è quiete. È inquietante paralisi. È sentire che ogni parola rischia di usurpare, di sovrapporsi, di profanare. La poesia non ci assolve mai. È il punto in cui la colpa si fa linguaggio. E in cui il linguaggio si sa, ci parla, ed è finalmente, fatalmente inadeguato.(Harte Mysia)


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