venerdì 23 maggio 2014

22 anni fa






22 anni fa 400 chili di tritolo uccisero Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
Il ricordo di ciò che è accaduto è legittimo e necessario. Il ricordo di quei momenti deve restare scolpito nella carne e nel sangue di un paese che non può e non deve dimenticare. Ma Giovanni Falcone iniziarono a ucciderlo molto prim
a del 22 maggio 1992. Giovanni Falcone iniziarono a ucciderlo lentamente, isolandolo, diffamandolo, ostacolandolo. Lo accusarono di “collusione con i socialisti” quando accettò la carica propostagli da Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia, di dirigere la sezione Affari Penali del ministero. Iniziarono a ucciderlo quando lo accusavano di stare troppo in televisione o di presentarsi sui luoghi dei delitti non prima di essersi assicurato che ci fossero le telecamere. Lo isolarono quando alle elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990 venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non fu eletto. Lo isolarono quando Leoluca Orlando lo accusò di aver "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Lo isolarono quando al Maurizio Costanzo Show gli dissero “non mi piace che stai nel palazzo”, dopo che Falcone aveva diretto la sezione Affari Penali e considerava necessario cambiare le istituzioni dal loro interno. Lo isolarono quando i vicini di casa lamentavano il fastidio delle sirene delle auto di scorta e lo invitavano ad andare a vivere lontano per non disturbare e mettere a rischio la città. Lo attaccarono diversi esponenti della cosiddetta “cultura antimafia” dell’epoca, accusandolo di essere un furbetto, pronto a sfruttare ogni occasione per fare carriera, mettersi in mostra, avere potere. E in ultimo iniziarono a ucciderlo quando dopo l’attentato fallito all’Addaura (misero del tritolo nelle vicinanze della casa che aveva preso in affitto per l’estate, ma la bomba non esplose) tutti, a destra, sinistra, centro e nel movimento antimafia stesso (come scrive anche Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia negli anni ’90) dissero che quell’attentato l’aveva architettato lui stesso, per avere visibilità e mostrarsi martire.
Falcone ha combattuto per tutta la vita contro il luogo comune del “se sei ancora in vita, nonostante la criminalità organizzata ti voglia morto, vuol dire che qualcuno ti protegge”. Eppure chi crede questo, senza accorgersene, propugna l’infallibilità della mafia.
Una ragazza gli chiese: “Lei dice che si muore perché si è soli, giacché lei fortunatamente è ancora fra noi, chi la protegge?”
E lui rispose: “Questo significa che per essere credibile bisogna essere ammazzati in questo paese?”
Voglio ricordare Giovanni Falcone e quello che ha fatto durante la sua vita difficile e piena di coraggio. Voglio ricordare però anche come è stato trattato durante la sua vita. La santificazione post mortem è un esercizio sterile se non si comprende la grandezza di un uomo quando è lì davanti a noi. Quando è in vita e può cambiare, con il suo talento, con le sue capacità e conoscenze, il corso delle cose.
Qui http://goo.gl/pfV174 il mio ricordo di Giovanni Falcone. (Roberto Saviano)

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