Un pericolo strisciante si aggira per l’Europa. Un
pericolo nuovo e a un tempo vecchio, che sembra pervadere piano piano le
menti, lo sguardo, le parole di tutti noi, ma lentamente, senza che
quasi ce ne accorgiamo. Si insinua nei discorsi ufficiali come in quelli
tra la gente comune, tra le immagini di giornali, Rete e televisione. È
ipocrita, non si dichiara mai apertamente, ma lavora sotto traccia. Si
tratta di quel mai dichiarato, ma sempre più spesso praticato
accostamento tra immigrazione e terrorismo. Un binomio che sembra
accontentare tutti, con la sua semplificazione, che non è semplicità sia
ben chiaro, ma solo riduzione a slogan, a banale equazione di un
problema quanto mai complesso.
È semplice dire che il terrorismo si annida sui barconi, nei campi
profughi, nelle colonne infami (per chi le causa, non per chi le vive)
dei dannati della terra e della guerra. Da un lato consente di avviare
politiche repressive, forme di esclusione, riduzione dei diritti;
dall’altro di non guardare in faccia la realtà e di non cercare di
comprendere le cause di tanta violenza. E non importa che la maggior
parte degli attentatori siano nati e cresciuti in questa società
occidentale che si ritiene superiore alle altre. Meglio volgere lo
sguardo all’esterno.
Molti antropologi hanno affrontato il tema della stregoneria e la
maggior parte è giunta alla conclusione che è utile a una comunità
pensare alle streghe. Utile perché le accuse di stregoneria in fondo
propongono la visione di un “noi” buono e di una malvagità che sta
all’esterno della comunità, che è della strega. In questo modo tutte le
tensioni interne vengono incanalate verso un nemico che sta fuori, che è
diverso. In caso contrario bisognerebbe guardarsi dentro, fare i conti
con sé stessi e forse scoprire che si è ciò che si pensa di essere.
È lo stesso meccanismo applicato oggi da certi governi, partiti,
movimenti, che preferiscono credere alla strega dell’immigrato
terrorista, che guardare nella pancia del Vecchio continente e provare a
scoprirne le contraddizioni. Piangere e contare solo i proprio morti,
non quelli causati da noi, altrimenti si scopre che il saldo è in attivo
per gli altri. Sorvolare sulle discriminazioni continue e sulla
violenza esportata da decenni, da secoli, sullo sfruttamento di risorse
altrui. Questo è il modo per convogliare tutte le colpe sul capro
espiatorio più debole, già vessato dalla storia e ora anche dagli
interessi politici di qualcuno.
Attenzione, non facciamoci incantare dalle sirene dei cacciatori di
streghe. Guardiamo negli occhi la realtà, magari allontanandocene un po’
per avere una visione più aperta. Nessuno nega che in alcuni casi
l’accoglienza sia difficile, così come la convivenza, ma la
demonizzazione, l’esclusione, la chiusura non sono le soluzioni, non
sono soluzioni, solo un bieco gioco sulla pelle di chi già soffre.
Perché, come scriveva Arthur Rimbaud: «C’è infine, quando si ha fame e
si ha sete, qualcuno per scacciarvi».
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