lunedì 22 agosto 2016

Perché l’alba sembra diversa dal tramonto?



Dopotutto è, simmetricamente, lo stesso fenomeno: la luce e i colori dovrebbero diffondersi senza differenze sostanziali.

E in effetti è così: le leggi della fisica restano identiche a tutte le ore della giornata, e se le condizioni atmosferiche fossero identiche nei due “passaggi” avremmo albe identiche ai tramonti - cosa che in particolari situazioni accade, ad esempio nel bel mezzo degli oceani.

La differenza sostanziale sta nella circolazione atmosferica, nella temperatura e nella quantità di polveri sottili sospese nell’aria. All’alba l’aria è più pulita e più fresca, al tramonto invece l’aria è più calda e ricca di particolato dovuto alle attività umane. Quando il Sole sta calando la luce, che si riflette urtando le molecole sospese nell’aria secondo un principio fisico noto come Scattering di Rayleigh (al quale presto dedicheremo un altro interessante post), arriva al nostro occhio privata delle lunghezze d’onda che si diffondono (si perdono) più facilmente, dal giallo al blu, e quindi noi la percepiamo rossa-arancio; all’alba invece un po’ di giallo riesce a passare, andando a “schiarire” la nostra percezione visiva. In tutto questo rimbalzare di fotoni ci si mette anche il nostro occhio, che si adatta diversamente se la luminosità ambientale sta aumentando o diminuendo (dopo la notte l’occhio è in grado di percepire molte più sfumature di colori), e il cervello, che gioca un ruolo fondamentale interpretando il tutto in modo indipendente, dando percezioni di colore diverse da persona a persona (e l’esempio del vestito nero-blu/giallo-oro è stato lampante).

Ad esempio, se vi dicessi che quella scelta per questo post è un’alba fotografata in California, mi credereste? Spesso nella percezione delle cose il nostro immaginario è più forte della realtà stessa, e ci illude di farci riconoscere un dato colore o un dato fenomeno anche se ci sbagliamo.

La domanda fatta all’inizio di questo post mi è stata posta ieri sera da una mia amica, ad una cena tra appassionati di spazio e astronautica. Mi ha fatto capire che molti fenomeni che noi scienziati diamo per scontati, sono invece estremamente affascinanti da raccontare. Per questo vi esorto a farci sempre domande: come disse Einstein, “non esistono domande stupide, ma solo risposte stupide”. Saremo sempre felici di rispondervi!

Dalla pagina FB -Chi ha paura del buio?

sabato 13 agosto 2016

Etiopia: modello cinese e conflittualità etnica

Locomotiva economica del Corno d’Africa, corre solo un pericolo: quello derivante dagli squilibri etnici
Etiopia. Addis_ababa-leader-economico


Nell’immaginario collettivo occidentale l’Etiopia é associata alla carestie e alle foto di bambini malnutriti in fin di vita. Questa associazione non é frutto di razzismo. Le carestie sono state periodiche e drammatiche realtà di questo Paese del Corno d’Africa. Contemporaneamente alle carestie si sono succedute varie e devastanti guerre civili, non ultima il conflitto con i fratelli eritrei, nato su divergenze claniche tra Tigrini e sfuggito di mano grazie alle nefaste interferenze di Paesi stranieri quali Russia, Stati Uniti, Italia, Arabia Saudita.
Carestie e guerre sono tutt’ora al primo posto dell’immaginario occidentale riguardante l’Etiopia. Due piaghe che rendono marginale anche l’immenso patrimonio culturale, archeologico e faunistico che rende questo Paese unico nel Continente. Nel 2016 questo immaginario continua ad essere proposto, ma non corrisponde più alla realtà. L’Etiopia é la locomotiva economica del Corno d’Africa e si sta imponendo tra le Nazioni leader del continente. Uno dei migliori esempi del ‘Rinascimento Africano’ e della Black Dignity.
L’Etiopia, priva di petrolio, é riuscita imporsi tra iMiracoli Economici Africanicon una crescita economica stabile del 10,9%, iniziata nel 2004. Questo ininterrotto miracolo economico é stato possibile grazie alla fedele duplicazione del modello cinese che prevede riforme economiche e boom imprenditoriale strettamente controllato dal un Potere Centrale. L’Etiopia, con il suoi 90 milioni di abitanti, ricorda la Cina degli anni Novanta, dove il Partito Comunista investiva nelle infrastrutture e costruiva una mentalità imprenditoriale non basata sul fantomatico big bang del liberalismo economico, ma sugli interessi nazionali.
Un numero impressionante di multinazionali stanno investendo in Etiopia. Tra quelle occidentali ricordiamo: Salini Costruzioni, Heineken, Blackstone Group, KKR, General Eletric, Orange, Etur Textile, BDL Group, Diageo, SABMiller, PPC e Starwood Hotels. Gli investimenti sono resi attraenti da una mirata politica fiscale e orientati nei settori prioritari decisi dal Governo di Addis Abeba: turismo, industria metallurgica, agroalimentare, artigianato, industria manifatturiera, tessile, chimica, farmaceutica.
Imitando il modello cinese, nel 2012 il Governo etiope ha creato delle zone industriali speciali gestire da aziende statali e private. Questi hub, sorti grazie a finanziamenti di Pechino, sono la struttura portante della avviata rivoluzione industriale etiope, dove la Cina gioca un ruolo di primo ordine. Lo scorso luglio la China Civil Engineering Construction Corporation ha firmato un accordo dal valore di 246 milioni di dollari per la realizzazione del complesso industriale di Hawassa che creerà 12.000 posti di lavoro.
La Cina é il primo partner di Addis Abeba per la realizzazione della politica energetica regionale. Il 4 agosto la China Electric Power Equipmente and Technology ha firmato un accordo per il rafforzamento dell’approvvigionamento di energia elettrica prodotta in Etiopia. Il progetto, dal valore di 1,26 miliardi di dollari, aumenterà la capacità di produzione elettrica nazionale di 2.000 Megawatts di cui 400 di essi saranno destinati al fabbisogno energetico del Kenya.

Il Governo etiope sta rivedendo il Codice Commerciale con l’obiettivo di facilitare maggiori investimenti privati, semplificando le normative per la creazione di industrie e ditte commerciali, migliorando la protezione giuridica delle aziende e concedendo mirate facilitazioni fiscali.  Il settore trainante rimane quello agricolo, 42% del PIL nazionale. Stessa percentuale é garantita dai servizi, mentre l’industria contribuisce solo per il 12%. Questo ultimo settore é ora al centro delle attenzioni del Governo  che ha lanciato la rivoluzione industriale con l’obiettivo di rendere l’Etiopia il principale produttore ed esportatore regionale, continentale ed internazionale di pelletteria, prodotti agro-alimentari e artigianato.
La chiave del successo socio-economico dell’Etiopia risiede nella capacità della attuale classe dirigente di rompere con la politica di isolamento attuata  dal Imperatore Haile Selassie I, detto ‘Ras Tafari’, per resistere al colonialismo italiano.  L’isolamento autarchico continuò sotto il regime socialista di Mengistu Haile Mariam, nonostante l’Etiopia rientrasse sotto la sfera del blocco sovietico. Il nuovo regime di Meles Zenawi, dopo la presa del potere, nel 1991, ha impostato la sua politica estera basata sull’apertura ai Paesi vicini e al continente, gettando le basi per l’integrazione regionale e trasformandosi nell’epicentro della vita politica dell’Unione Africana (UA). Addis Abeba é diventata la Bruxelles africana, ospitando la sede UA, costruita con finanziamenti cinesi.
Superando l’economia di dipendenza finanziaria e assistenza umanitaria occidentale, l’Etiopia é riuscita a ottenere un proficuo equilibrio tra i partner internazionali. Oltre al partner storico, ma sempre più in declino, l’Italia, Addis Abeba ha allacciato profonde relazioni commerciali e politiche con l’Unione Europea, Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele, e, ovviamente, Cina, India. Una scelta basata su un delicato equilibrio dei rapporti sull’arena internazionale, che ha evitato al Paese di cadere prigioniero delle zone di influenza createsi dopo la caduta del Muro di Berlino. Se l’Etiopia é l’indiscutibile alleato militare politico di Washington nel Corno d’Africa, é, allo stesso tempo, uno dei principali partner economici di Pechino. Le varie spinte centrifughe delle potenze straniere in concorrenza tra di loro sono state mitigate e controllate dal concetto dell’interesse nazionale imposto dal Governo, che ha trasformato il classico rapporto tra una Nazione del Terzo Mondo e le potenze economiche straniere in una partnership strutturata e volta al benessere e alle convenienze dell’Etiopia. Una strategia inserita all’interno della rinascita del Paese.
Oltre ai preziosi partner stranieri, l’Etiopia é riuscita imporsi come potenza regionale e a creare una vera integrazione con i Paesi confinanti. Il fiore all’occhiello di questa politica é Djibouti, considerato da Addis Abeba un alleato strategico in grado di garantire lo sbocco sul mare, perso dopo l’indipendenza dell’Eritrea. «Noi mettiamo a disposizione della Eritrea la necessaria logistica e lo sbocco sul mare per l’esportazione ricevendo in cambio il supporto necessario per risolvere la carenza geografica di acqua ed energia. Djibouti ed Eritrea hanno costruito solide relazioni, favorendo l’integrazione delle infrastrutture necessarie per le rispettive economie e lavorando in sinergia su una agenda comune di sviluppo socio economico basato su una visione strategica a lungo termine», spiega Samier Aden, Consigliere del Ministero djibutino della Economia, Finanza ed Industria. Di recente creazione la zona commerciale ‘free trade’ per gli imprenditori dei due Paesi, con base a Djibouti.
Djibouti non é l’unico Paese beneficiario della politica di integrazione regionale promossa da Addis Abeba. Sono state superate le secolari divisioni politiche religiose con il nemico islamico: il Sudan. Ora gli imprenditori etiopi si sono assicurati un secondo sbocco sul mare: Port  Sudan. La realizzazione in corso della ferrovia che collega il Paese al porto keniota di Lamu (finanziata dalla Cina) aumenta l’integrazione con la East African Community, anche se l’Etiopia, al momento, non é Paese membro dell’Unione Economica dell’Africa Orientale.
«La politica etiope di soft power (made in China), basata sulle relazioni commerciali con i suoi vicini e lo sviluppo di infrastrutture regionali, sta aiutando i Paesi del Corno d’Africa ad unirsi e sfruttare i benefici dell’integrazione socio economica», afferma Matt Bryden Direttore della ditta di consulenze economiche Sahan Research con sede a Nairobi. «L’Etiopia é diventata il principale produttore di elettricità della regione. Il Governo é riuscito a trasformare una scontata fornitura di elettricità ai Paesi vicini da pura fonte di guadagno in una strategia vincente di integrazione regionale. L’Etiopia esporta energia, a prezzi contenuti, in Djibouti, Sudan, Kenya, contribuendo allo sviluppo industriale di questi Paesi, e ricevendo in cambio importanti forniture di petrolio, pagato sulla base di prezzi politici», spiega il giornalista francese Robert Wiren.

Questa politica economica nasconde, però, antiche diatribe basate su una vecchia politica militare estremamente aggressiva contro i nemici giurati, Eritrea e Somalia, e contro le minoranze nazionali. L’Eritrea conquistò l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993, terminando una delle più lunghe guerre civili africane, durata trent’anni. La maggioranza degli etiopi non ha mai accettato la perdita dell’Eritrea, e le guerre di frontiere del 1998 e del 2000 sono le dirette conseguenze di questo senso di perdita di territorio nazionale. Conflitti frontalieri ripresi a metà giugno, e temporaneamente congelati.
Questa conflittualità sta creando un vero e proprio disastro economico all’Eritrea, che sempre più si chiude in un modello economico suicida fondato sull’autarchia e i finanziamenti di Arabia Saudita e Turchia. Anche gli imprenditori etiopi stanno soffrendo pesanti perdite, soprattutto quelli operanti nelle città di frontiera di Mekele e Adigrat. Gli imprenditori di queste città hanno perso i mercati eritrei, nonostante condividano lingua, cultura e legami familiari con gli eritrei. Al momento i principali movimenti di frontiera sono rappresentati dai clandestini eritrei che fuggono il regime dittatoriale di Asmara.
Se la collocazione geografica dell’Eritrea determina l’inevitabile integrazione economica con l’Etiopia e il Corno d’Africa, la politica autarchica rende il Governo di Asmara dipendente da potenze arabe che mettono il Governo nelle condizioni di dover aumentare la repressione e i metodi anti-democratici. Il collasso del regime di Asmara é auspicato a livello regionale, ma anche fonte di preoccupazioni per Addis Abeba, in quanto la transizione, se non sapientemente gestita, potrebbe creare situazioni di conflittualità clanica simile, se non peggiore, a quelle registrate in Somalia e Libia.
Le relazioni tra Etiopia e Somalia non hanno registrato alcun miglioramento, nonostante il supporto militare e politico garantito da Addis Abeba al Governo somalo. Lo stato permanente di guerra tra i due Paesi trova origini nel progetto del dittatore somalo Siad Barre della Grande Somalia, e nelle relative rivendicazioni territoriali della regione etiope del Ogaden. Le mire imperialistiche di Siad Barre, incoraggiate da Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia, culminarono nella disastrosa sconfitta della Somalia nella guerra del luglio 1977, che segnò il preludio della fine del regime, fine avvenuta nel 1991, e la discesa agli inferi dettata prima da una guerra civile tra clan somali, e, successivamente, dalla presa di potere del gruppo terroristico filo saudita Al Shabaab. La dura guerra contro l’estremismo islamico, compiuta dagli eserciti africani guidati dall’Uganda, iniziata nel 2007 e tutt’ora in atto, é la diretta conseguenza di politiche scellerate adottate da potenze straniere irresponsabili e guerrafondaie  -e tra queste un ruolo l’ha condotto pure l’Italia. Il pesante tributo di sangue versato dai soldati africani della AMISOM, e il loro tenace impegno militare, non sono altro che obbligate azioni per tentare di riportare la pace in Somalia, distrutta da colpevoli politiche estere decise a Washington, Londra e Roma.
Le truppe africane hanno come obiettivo stabilizzare la Somalia e sconfiggere il terrorismo salafista largamente finanziato dal principale alleato occidentale in Medio Oriente, l’Arabia Saudita. Nel progetto della Rinascita Somala, Etiopia e Uganda sognano di riportare la Somalia, in preda alla guerra civile da 25 anni, pace e stabilità, condizioni necessarie per completare l’integrazione economica che da Asmara termini a Kampala, sorretta dalle due potenze africane della regione con capacità economiche e militari senza precedenti nella storia del continente.  Addis Abeba ha da tempo studiato il Piano ‘B’, in caso di fallimento della AMISOM nel pacificare la Somalia. Il piano consiste nel rendere irreversibile l’indipendenza della Somaliland, creando una alleanza politica, militare, economica con la regione più stabile ed economicamente attiva della Somalia, dichiaratasi, nel 1991, Stato indipendente, mai riconosciuto dalle Nazioni Unite.
Il sogno della Grande Somalia, incoraggiato da Washington, Londra e Roma, ha causato un sterminio e la distruzione del tessuto socio economico delle popolazioni etiopi Oromo, della regione del Ogaden, su cui tutt’ora il Governo di Addis Abeba si accanisce per soffocare i sentimenti d’indipendenza e autodeterminazione. Un accanimento che non presta alcuna attenzione ai diritti umani delle popolazioni Oromo, che vengono duramente represse anche grazie alle armi vendute dall’industria bellica italiana.
L’innegabile sviluppo economico e sociale che sta conoscendo l’Etiopia nasconde una realtà di dominio etnico razziale esplosiva. La società etiope rimane ancorata alle secolari egemonie di due etnie:  gli Amhara e i Tigrini, che, a fasi alterne, si dividono il potere economico, politico e militare. Gli Amhara sono l’etnia imperiale che controlla da secoli il potere nel Paese. Etnia di origine nilotica fondata sulla divisione sociale di vasallaggio, dove le altre etnie sono considerate dei semplici vassalli, e gli Oromo (di origine bantu) dei servi della gleba.
Forti di 20 milioni di persone, gli Amhara sono il secondo gruppo etnico etiope originari della regione di Amhara, ubicata nel nord e centro del Paese. I Tigrini sono un gruppo etnico regionale che risiede nella regione del Tigrai in Etiopia e in Eritrea, dove costituiscono la metà della popolazione. I tigrini sono in maggioranza cristiani, appartenenti alla  Chiesa ortodossa eitopica, con minoranze protestanti e una componenete islamica rappresentata dai mussulmani sunniti detti Jeberti.
Gli Amhara e i Tigrini erano storicamente alleati durante il Regno di Axum, da loro fondato duemila anni fa. Un regno che comprendeva l’Eritrea, l’Etiopia il nord est del Sudan e il sud dello Yemen.  Solo nel tardo medioevo i due gruppi etnici iniziarono differenziarsi, inziando un eterno conflitto per il controllo del potere. Gli Amhara, presero il sopravvento, con la l’ascesa della linea di discendenza Gondar della dinastia Imperiale all’inizio del XVII secolo. Da allora, i Tigrini riuscirono a controllare il Paese solo per il breve periodo del re Giovanni IV verso la fine dell’Ottocento.
Gli Amhara si considerano l’elite etiope diretta rappresentante della discendenza degli Imperatori, che terminò con Haile Selassie. I tigrini si considerano i diretti discendenti di Menelik I (figlio di Makeda, Regina di Saba e di Re Salomone). Gli Amhara mantennero il potere fino al 1991, quando la ribellione, composta per la maggioranza da Tigrini, destituí con la forza il regime di Mengistu. Dopo la caduta del regime, gli eritrei hanno riposto grandi speranze che le due etnie dominanti smetessero le loro rivalità storiche e accettassero una equa distribuzione del potere e delle ricchezze con le etnie di origine bantu e somala e altri clan di origine nilotica.
Il Governo di  Meles Zenawi   (strettamente controllato dai tigrini), dal 1991, ha promosso una politica di federalismo etnico rientrante nella ‘Questione Nazionale’. Una politica che sulla carta prevede la creazione di un Paese federale e multietnico dove viene garantito l’equilibrio tra le diverse etnie, privilegiando lo sviluppo nazionale e penalizzando quello etnico e clanico. L’inganno del progetto federale e multietnico risiede nell’aver affidato la sua realizzazione all’etnia Tigrina, che ha incanalato la ‘Questione Nazionale’ secondo i propri interessi clanici, mitigando, ma non eliminando, il ‘diritto divino’ di governare. L’identità nazionale etiope (vantata come uno dei successi governativi) rimane un bluff dove le altre etnie, sopratutto quelle bantu e Oromo, si sentono escluse. Mentre gli Amhara rivendicano ancora il diritto di governare tutta l’Etiopia, la maggioranza degli altri gruppi etnici non riconoscono la paventata unione nazionale della Etiopia, affermando che tutt’ora il Paese non possiede una storia, una cultura e una lingua comune.
Le unità inter-etniche storicamente sono avvenute solo per combattere gli invasori turchi, italiani, egiziani e sudanesi. La situazione odierna sembra peggiorata, in quanto si assiste ad un aumento del potere da parte della etnia Tigrina, anche a scapito dei Amhara nei settori chiave: militare, economico e politico. Secondo la maggioranza delle altre etnie non esiste ancora ‘una’ Etiopia, ma solo un Paese dove la storia, la lingua e la cultura dell’etnia al potere viene imposta lasciando due scelte agli altri gruppi etnici: l’assimilazione o la guerra. Se non mitigata o risolta, la secolare conflittualità Amhara-Tigrini può divenire la principale causa dell’implosione sociale dell’Etiopia.
Una drammatica testimonianza di ciò è nelle recenti manifestazioni   -in piazza Meske, ad Addis Abeba-  di protesta della distribuzione clanica ed etnica delle ricchezze nazionali imposta dal Governo a favore dei Tigrini. Proteste promosse dagli Amhara e dai Oromo, violentemente soppresse dalle Forze dell’Ordine con un bilancio provvisorio di 100 morti, seguito da una brutale ondata senza precedenti di arresti politici. Le proteste si sono estese anche in 10 città della regione Oromiya, tra le quali Ambo, Dembi Dolo e Nemeit. L’attuale situazione rende incerte le sorti del leader dell’opposizione, Andargachew Andi Tsege, condannato da Addis Abeba alla pena capitale. Il cittadino etiope britannico é il fondatore del parito d’opposizione Ginbot 7, classificato dal Governo come organizzazione terroristica. Tsege fu arrestato nel 2014 dalle autorità yemenite ed estradato in Etiopia. Il conflitto sociale scoppiato in Etiopia, che occulta squilibri etnici, sarà un altro banco di prova della capacità della Unione Africana a condurre il continente verso la pace e il benessere socio economico.

Fonte: http://www.lindro.it/etiopia-modello-cinese-e-conflittualita-etnica/3/

venerdì 5 agosto 2016

L’artista palestinese Nidaa Badwan: “Il nostro problema non è Israele, ma Hamas”



Riprendiamo l’ottimo articolo con intervista a Nidaa Badwan, pubblicato su L’Avvenire a firma Emanuela Zuccaà.
Nidaa Badwan è un’artista palestinese nata ad Abu Dhabi, arrestata dai miliziani di Hamas nel 2013. Ancora oggi dice: “Paradossalmente il nostro problema più grave non è Israele, ma le restrizioni imposte da Hamas”.
La luce, obliqua e avara, filtra da una finestra troppo piccola, riuscendo a sfiorare appena gli oggetti sparsi per una stanza di tre metri per tre: una chitarra, ceste di frutta, una macchina da scrivere e una per cucire, disegni infantili appesi alla parete. E lei, la protagonista della scena dal volto semioscurato, posa con gesti morbidi nello spazio artificiale della prigione che s’è auto-inflitta per dimenticare quella vera, inespugnabile: la Striscia di Gaza.
L’artista palestinese Nidaa Badwan è nata ventinove anni fa ad Abu Dhabi ma da sempre abita qui, nella terra sigillata da Israele e dall’Egitto e soffocata dall’integralismo del partito islamico di Hamas. Un feroce oscurantismo che ha bandito la cultura, l’arte, la musica, i luoghi di ritrovo, spegnendo ogni speranza negli occhi dei giovani. «Ecco perché ho deciso di segregarmi per mesi nella mia camera» racconta Nidaa. «Non può esserci un prezzo per la libertà: noi veniamo al mondo già liberi. E se mi è negata, la costruirò nel mio spazio, per quanto angusto sia».
È il novembre del 2013 quando, per le strade del campo profughi di Deir al-Balah, dove Nidaa vive con la famiglia, i miliziani di Hamas l’arrestano. Non indossa il velo ma un berretto colorato; è con un gruppo di ragazzi. Ragioni valide per strattonarla, tenerla in cella tre giorni e farle firmare a forza l’impegno di mettersi il velo. Così lei inscena la sua personale rivolta e si auto-incarcera, affidando alla macchina fotografica i ritratti di un isolamento che è uno scalciare creativo e, insieme, un silenzio purificante dalla morte e dalla distruzione di cui Gaza odora.
Probabilmente Nidaa Badwan sognerebbe ancora tra quelle pareti color acquamarina, se la sua serie di ventiquattro autoritratti dal titolo Cento giorni di solitudine non fosse capitata tra le mani di un giornalista del New York Times: da allora si parla in tutto il mondo dei chiaroscuri quasi caravaggeschi della ragazza palestinese, come di istantanee emotivamente inedite della frustrazione che affligge i due milioni di abitanti della Striscia, in gran parte giovani e disoccupati. Cento giorni di solitudine è stata in mostra a Montecatini Terme, a Berlino, fino a settembre compare in una collettiva al museo danese Trapholt, e presto viaggerà verso Ginevra, New York, Hong Kong. Ma Nidaa, ormai, ha scelto l’Italia: «Voi spesso non siete consapevoli del fatto che respirate continuamente arte, mangiate arte, esprimete arte» sorride. Lo scorso autunno ha iniziato la sua vita libera tra la Romagna e San Marino, dove tiene seminari di fotografia artistica all’università del Design.
«Ho ottenuto da Israele e da Hamas il permesso di uscire da Gaza solo grazie a padre Ibrahim Faltas, il francescano parroco di Gerusalemme» tiene a precisare. «Senza il suo aiuto sarei ancora laggiù. Mi manca la mia famiglia, ho due fratelli e tre sorelle, però non voglio tornare. Paradossalmente il nostro problema più grave non è Israele, ma l’insieme di restrizioni imposte da Hamas: non esiste più un cinema a Gaza, un posto dove ritrovarsi in serenità e confrontare idee. I giovani si suicidano: in questi giorni tanti si danno addirittura fuoco per disperazione».
Ricorda la sua prima mostra, nel 2015 a Gerusalemme: «Non mi diedero il permesso di lasciare Gaza e non la vidi». In una delle sue foto più inquiete, Nidaa stringe in mano l’iPhone nell’attesa del messaggio che le annuncerà il visto per l’Italia, questa volta davvero libera di varcare il muro dietro il quale è cresciuta. Ricorda anche l’operazione militare israeliana “Protective edge”, dell’estate 2014: un conflitto terminato con oltre duemila vittime, più di undicimila feriti e tonnellate di macerie tuttora da rimuovere. «Anche allora rimasi nella mia stanza – dice – cercando rifugio nell’arte».
Nelle sue immagini ricorre un gallo, l’unico essere animato con cui l’artista interagisca davanti all’obiettivo: «Nella simbologia araba il gallo rappresenta l’uomo – spiega – un’energia maschile che vuole zittirmi. In mano ho un oud, strumento musicale mediorientale, e sono io a intimare al gallo di tacere, per lasciarmi libera». In un’altra foto Nidaa dipinge, ispirata da quadri rossi appesi al muro. Li ha disegnati suo fratello Abood, che ha vent’anni e soffre d’autismo: «Durante il mio isolamento, ogni volta che mi sentiva piangere Abood mi portava un nuovo dipinto: sa che questo mi fa vibrare. Sono diventata come lui, autistica: ho imparato ad attraversare il suo mondo, sapevo come parlare con lui, come fare errori ordinando frasi e parole, come borbottare».
Al fratello è dedicato il nuovo progetto, tra fotografia e pittura, che Nidaa Badwan presenterà l’anno prossimo alla fiera Miart di Milano. Mentre in ottobre allestirà a San Marino una mostra di inediti patrocinata dall’Unesco. Ma il suo sogno ricorrente resta quello di «aprire una galleria» confida, «per dare spazio agli artisti che, come me, sono costretti a lottare». E se mai riuscirà a realizzarlo dentro la prigione-Gaza, quel sogno avrà il sapore di un’autentica conquista.

mercoledì 3 agosto 2016

Offese all'onestà intellettuale di nanni mei PAOLO COSSU.



Si fa credere alle gente che i responsabili di queste migrazioni siano i "trafficanti di carne umana" mentre purtroppo la situazione è ben più complessa e drammatica. 1) profughi e migranti fuggono da guerre, oppressione politica, fame e siccità eccetera; 2) trovano muri sempre più alti che impediscono gli spostamenti e 3) si affidano ai delinquenti, unica loro possibilità per giungere nei paesi ricchi. La catena delle origini, delle correlazioni, delle cause non nasce dai "trafficanti" ma da altre situazioni, talvolta create dagli stessi occidentali con politiche miopi e dissennate. Insomma, non sono i trafficanti che creano la domanda! Le persone fuggono dalla miseria economica, dalla fame, da situazione di vita impossibili, dal rischio di morte eccetera e si affidano chi garantisce loro una speranza, anche a caro prezzo. La retorica dei trafficanti è buona per sciacquare le nostre coscienze e vivere di finzioni. Il mondo sta esplodendo e far finta che sia colpa dei trafficanti è semplicemente pazzesco...Affidare poi al diritto penale la soluzione dei drammi che stanno sconvolgendo il mondo è assolutamente ingenuo. Ci vuole la Politica, un mondo più giusto, e non le Flotte e gli ammiragli che fanno muro contro i trafficanti. Le pressioni migratorie aumenteranno e il nostro futuro, senza politiche globali, che oramai latitano da molto, sarà vissuto dentro muraglie difensive, fortificazioni, linee di confine sempre più strette e ossessivamente controllate. Senza Politica con la p maiuscola vivremo in bunker dove si consuma la stragrande maggioranza della ricchezza planetaria, ma circondati da popolazioni in cerca di giustizia e riscatto. Insomma, la radiografia, direi la Tac, è questa. Continuare con la retorica dei trafficanti è offensivo nei confronti dell'onestà intellettuale.