Locomotiva economica del Corno d’Africa, corre solo un pericolo: quello derivante dagli squilibri etnici
Nell’immaginario collettivo occidentale l’Etiopia é associata alla
carestie e alle foto di bambini malnutriti in fin di vita. Questa
associazione non é frutto di razzismo. Le carestie sono state periodiche
e drammatiche realtà di questo Paese del Corno d’Africa.
Contemporaneamente alle carestie si sono succedute varie e devastanti
guerre civili, non ultima il conflitto con i fratelli eritrei, nato su
divergenze claniche tra Tigrini e sfuggito di mano grazie alle nefaste
interferenze di Paesi stranieri quali Russia, Stati Uniti, Italia,
Arabia Saudita.
Carestie e guerre sono tutt’ora al primo posto dell’immaginario
occidentale riguardante l’Etiopia. Due piaghe che rendono marginale
anche l’immenso patrimonio culturale, archeologico e faunistico che
rende questo Paese unico nel Continente. Nel 2016 questo immaginario
continua ad essere proposto, ma non corrisponde più alla realtà. L’Etiopia é la locomotiva economica del Corno d’Africa e si sta imponendo tra le Nazioni leader del continente. Uno dei migliori esempi del ‘Rinascimento Africano’ e della Black Dignity.
L’Etiopia, priva di petrolio, é riuscita imporsi tra i ‘Miracoli Economici Africani‘ con una crescita economica stabile del 10,9%, iniziata nel 2004. Questo ininterrotto miracolo economico é stato possibile grazie alla fedele
duplicazione del modello cinese che prevede riforme economiche e boom
imprenditoriale strettamente controllato dal un Potere Centrale.
L’Etiopia, con il suoi 90 milioni di abitanti, ricorda la Cina degli
anni Novanta, dove il Partito Comunista investiva nelle infrastrutture e
costruiva una mentalità imprenditoriale non basata sul fantomatico big
bang del liberalismo economico, ma sugli interessi nazionali.
Un numero impressionante di multinazionali stanno investendo in Etiopia. Tra quelle occidentali ricordiamo: Salini Costruzioni, Heineken, Blackstone Group, KKR, General Eletric, Orange, Etur Textile, BDL Group, Diageo, SABMiller, PPC e Starwood Hotels.
Gli investimenti sono resi attraenti da una mirata politica fiscale e
orientati nei settori prioritari decisi dal Governo di Addis Abeba:
turismo, industria metallurgica, agroalimentare, artigianato, industria
manifatturiera, tessile, chimica, farmaceutica.
Imitando il modello cinese, nel 2012 il Governo etiope ha creato delle zone industriali speciali gestire da aziende statali e private. Questi hub, sorti grazie a finanziamenti di Pechino, sono la struttura portante della avviata rivoluzione industriale etiope, dove la Cina gioca un ruolo di primo ordine. Lo scorso luglio la China Civil Engineering Construction Corporation
ha firmato un accordo dal valore di 246 milioni di dollari per la
realizzazione del complesso industriale di Hawassa che creerà 12.000
posti di lavoro.
La Cina é il primo partner di Addis Abeba per la realizzazione della politica energetica regionale. Il 4 agosto la China Electric Power Equipmente and Technology
ha firmato un accordo per il rafforzamento dell’approvvigionamento di
energia elettrica prodotta in Etiopia. Il progetto, dal valore di 1,26
miliardi di dollari, aumenterà la capacità di produzione elettrica
nazionale di 2.000 Megawatts di cui 400 di essi saranno destinati al
fabbisogno energetico del Kenya.Il
Governo etiope sta rivedendo il Codice Commerciale con l’obiettivo di facilitare maggiori investimenti privati, semplificando le normative per la creazione di industrie e ditte commerciali,
migliorando la protezione giuridica delle aziende e
concedendo mirate facilitazioni fiscali. Il
settore trainante rimane quello agricolo,
42% del PIL nazionale. Stessa percentuale é garantita dai servizi,
mentre l’industria contribuisce solo per il 12%. Questo ultimo settore é
ora al centro delle attenzioni del Governo che ha lanciato la
rivoluzione industriale con l’obiettivo di
rendere l’Etiopia il principale produttore ed esportatore regionale,
continentale ed internazionale di pelletteria,
prodotti agro-alimentari e
artigianato.
La
chiave del successo socio-economico dell’Etiopia risiede
nella capacità della attuale classe dirigente
di rompere con la politica di isolamento attuata dal Imperatore
Haile Selassie I, detto ‘Ras Tafari’
, per resistere al colonialismo italiano. L’isolamento autarchico continuò sotto il regime socialista di
Mengistu Haile Mariam, nonostante l’Etiopia rientrasse sotto la sfera del blocco sovietico. Il nuovo regime di
Meles Zenawi, dopo la presa del potere, nel 1991,
ha impostato la sua politica estera basata sull’apertura ai Paesi vicini e al continente,
gettando le basi per l’integrazione regionale e trasformandosi nell’epicentro della vita politica dell’
Unione Africana (
UA).
Addis Abeba é diventata la Bruxelles africana, ospitando la sede UA, costruita con finanziamenti cinesi.
Superando l’economia di dipendenza finanziaria e assistenza
umanitaria occidentale, l’Etiopia é riuscita a ottenere un proficuo
equilibrio tra i partner internazionali. Oltre al partner storico, ma
sempre più in declino, l’Italia,
Addis Abeba ha allacciato profonde relazioni commerciali e politiche con l’Unione Europea,
Stati Uniti,
Gran Bretagna,
Israele, e, ovviamente,
Cina,
India.
Una scelta basata su un delicato equilibrio dei rapporti sull’arena
internazionale, che ha evitato al Paese di cadere prigioniero delle zone
di influenza createsi dopo la caduta del Muro di Berlino.
Se l’Etiopia é l’indiscutibile alleato militare politico di Washington nel Corno d’Africa,
é,
allo stesso tempo,
uno dei principali partner economici di Pechino.
Le varie spinte centrifughe delle potenze straniere in concorrenza tra
di loro sono state mitigate e controllate dal concetto dell’interesse
nazionale imposto dal Governo, che ha trasformato il classico rapporto
tra una Nazione del Terzo Mondo e le potenze economiche straniere in una
partnership strutturata e volta al benessere e alle convenienze
dell’Etiopia. Una strategia inserita all’interno della rinascita del
Paese.
Oltre ai preziosi partner stranieri, l’Etiopia é riuscita imporsi
come potenza regionale e a creare una vera integrazione con i Paesi
confinanti. Il fiore all’occhiello di questa politica é
Djibouti, considerato da Addis Abeba un
alleato strategico in grado di garantire lo sbocco sul mare, perso dopo l’indipendenza dell’Eritrea.
«Noi
mettiamo a disposizione della Eritrea la necessaria logistica e lo
sbocco sul mare per l’esportazione ricevendo in cambio il supporto
necessario per risolvere la carenza geografica di acqua ed energia.
Djibouti ed Eritrea hanno costruito solide relazioni, favorendo
l’integrazione delle infrastrutture necessarie per le rispettive
economie e lavorando in sinergia su una agenda comune di sviluppo socio
economico basato su una visione strategica a lungo termine», spiega
Samier Aden,
Consigliere del Ministero djibutino della Economia, Finanza ed
Industria. Di recente creazione la zona commerciale ‘free trade’ per gli
imprenditori dei due Paesi, con base a Djibouti.
Djibouti non é l’unico Paese beneficiario della politica di integrazione regionale promossa da Addis Abeba.
Sono state superate le secolari divisioni politiche religiose con il nemico islamico:
il Sudan. Ora
gli imprenditori etiopi si sono assicurati un secondo sbocco sul mare:
Port Sudan.
La realizzazione in corso della ferrovia che collega il Paese al porto
keniota di Lamu (finanziata dalla Cina) aumenta l’integrazione con la
East African Community, anche se l’Etiopia, al momento, non é Paese
membro dell’Unione Economica dell’Africa Orientale.
«La politica etiope di soft power (made in China), basata sulle relazioni commerciali con i suoi vicini e lo sviluppo di infrastrutture regionali, sta aiutando i Paesi del Corno d’Africa ad unirsi e sfruttare i benefici dell’integrazione socio economica», afferma
Matt Bryden Direttore della ditta di consulenze economiche
Sahan Research con sede a Nairobi.
«L’Etiopia é diventata il principale produttore di elettricità della regione. Il Governo
é riuscito a trasformare una scontata fornitura di elettricità ai Paesi
vicini da pura fonte di guadagno in una strategia vincente di
integrazione regionale. L’Etiopia esporta energia, a prezzi
contenuti, in Djibouti, Sudan, Kenya, contribuendo allo sviluppo
industriale di questi Paesi, e ricevendo in cambio importanti forniture
di petrolio, pagato sulla base di prezzi politici», spiega il giornalista francese
Robert Wiren.
Questa politica economica nasconde,
però,
antiche diatribe basate su una vecchia politica militare estremamente aggressiva contro i nemici giurati,
Eritrea e Somalia,
e contro le minoranze nazionali. L’Eritrea conquistò l’indipendenza
dall’Etiopia nel 1993, terminando una delle più lunghe guerre civili
africane, durata trent’anni. La maggioranza degli etiopi non ha mai
accettato la perdita dell’Eritrea, e le guerre di frontiere del 1998 e
del 2000 sono le dirette conseguenze di questo senso di perdita di
territorio nazionale.
Conflitti frontalieri ripresi a metà giugno, e
temporaneamente congelati.
Questa conflittualità sta creando un vero e proprio disastro economico all’Eritrea,
che sempre più si chiude in un modello economico suicida fondato
sull’autarchia e i finanziamenti di Arabia Saudita e Turchia. Anche gli
imprenditori etiopi stanno soffrendo pesanti perdite, soprattutto quelli
operanti nelle città di frontiera di Mekele e Adigrat. Gli imprenditori
di queste città hanno perso i mercati eritrei, nonostante condividano
lingua, cultura e legami familiari con gli eritrei. Al momento i
principali movimenti di frontiera sono rappresentati dai clandestini
eritrei che fuggono il regime dittatoriale di Asmara.
Se la collocazione geografica dell’Eritrea determina l’inevitabile
integrazione economica con l’Etiopia e il Corno d’Africa, la politica
autarchica rende il Governo di Asmara dipendente da potenze arabe che
mettono il Governo nelle condizioni di dover aumentare la repressione e i
metodi anti-democratici. Il
collasso del regime di Asmara é auspicato a livello regionale,
ma anche fonte di preoccupazioni per Addis Abeba, in quanto
la transizione,
se non sapientemente gestita, potrebbe creare situazioni di
conflittualità clanica simile, se non peggiore, a quelle registrate in
Somalia e Libia.
Le
relazioni tra Etiopia e Somalia non hanno registrato alcun miglioramento, nonostante il supporto militare e politico garantito da Addis Abeba al Governo somalo. Lo
stato permanente di guerra tra i due Paesi trova origini nel progetto del dittatore somalo
Siad Barre
della Grande Somalia, e nelle relative rivendicazioni territoriali
della regione etiope del Ogaden. Le mire imperialistiche di Siad Barre,
incoraggiate da Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia, culminarono nella
disastrosa sconfitta della Somalia nella guerra del luglio 1977, che
segnò il preludio della fine del regime, fine avvenuta nel 1991, e la
discesa agli inferi dettata prima da una guerra civile tra clan somali,
e, successivamente, dalla presa di potere del gruppo terroristico filo
saudita
Al Shabaab. La dura guerra
contro l’estremismo islamico, compiuta dagli eserciti africani guidati
dall’Uganda, iniziata nel 2007 e tutt’ora in atto, é la diretta
conseguenza di politiche scellerate adottate da potenze straniere
irresponsabili e guerrafondaie -e tra queste un ruolo l’ha condotto
pure l’Italia. Il pesante tributo di sangue versato dai soldati africani
della AMISOM, e il loro tenace impegno militare, non sono altro che
obbligate azioni per tentare di riportare la pace in Somalia, distrutta
da colpevoli politiche estere decise a Washington, Londra e Roma.
Le
truppe africane hanno come obiettivo stabilizzare la Somalia e sconfiggere il terrorismo salafista
largamente finanziato dal principale alleato occidentale in Medio
Oriente, l’Arabia Saudita. Nel progetto della Rinascita Somala,
Etiopia e Uganda sognano di riportare la Somalia, in preda alla guerra civile da 25 anni,
pace e stabilità, condizioni necessarie per completare l’integrazione economica che da Asmara termini a Kampala,
sorretta dalle due potenze africane della regione con capacità
economiche e militari senza precedenti nella storia del continente.
Addis Abeba ha da tempo studiato il Piano ‘B’, in caso di fallimento
della AMISOM nel pacificare la Somalia. Il piano consiste nel rendere
irreversibile l’indipendenza della
Somaliland,
creando una alleanza politica, militare, economica con la regione più
stabile ed economicamente attiva della Somalia, dichiaratasi, nel 1991,
Stato indipendente, mai riconosciuto dalle Nazioni Unite.
Il sogno della Grande Somalia, incoraggiato da Washington, Londra e
Roma, ha causato un sterminio e la distruzione del tessuto socio
economico delle popolazioni etiopi
Oromo,
della regione del Ogaden, su cui tutt’ora il Governo di Addis Abeba si
accanisce per soffocare i sentimenti d’indipendenza e
autodeterminazione. Un accanimento che non presta alcuna attenzione ai
diritti umani delle popolazioni Oromo, che vengono duramente represse
anche grazie alle armi vendute dall’industria bellica italiana.
L’innegabile sviluppo economico e sociale che sta conoscendo l’Etiopia nasconde una realtà di dominio etnico razziale esplosiva. La società etiope rimane ancorata alle secolari egemonie di due etnie: gli
Amhara e i
Tigrini,
che, a fasi alterne, si dividono il potere economico, politico e
militare. Gli Amhara sono l’etnia imperiale che controlla da secoli il
potere nel Paese. Etnia di origine nilotica fondata sulla divisione
sociale di vasallaggio, dove le altre etnie sono considerate dei
semplici vassalli, e gli Oromo (di origine bantu) dei servi della gleba.
Forti di 20 milioni di persone, gli Amhara sono il secondo gruppo etnico
etiope originari della regione di Amhara, ubicata nel nord e centro del
Paese. I Tigrini sono un gruppo etnico regionale che risiede nella
regione del Tigrai in Etiopia e in Eritrea, dove costituiscono la metà
della popolazione. I tigrini sono in maggioranza cristiani, appartenenti
alla Chiesa ortodossa eitopica, con minoranze protestanti e una
componenete islamica rappresentata dai mussulmani sunniti detti Jeberti.
Gli Amhara e i Tigrini erano storicamente alleati durante il
Regno di Axum,
da loro fondato duemila anni fa. Un regno che comprendeva l’Eritrea,
l’Etiopia il nord est del Sudan e il sud dello Yemen. Solo nel tardo
medioevo i due gruppi etnici iniziarono differenziarsi, inziando un
eterno conflitto per il controllo del potere. Gli Amhara, presero il
sopravvento, con la l’ascesa della linea di discendenza
Gondar della
dinastia Imperiale all’inizio del XVII secolo. Da allora, i Tigrini
riuscirono a controllare il Paese solo per il breve periodo del re
Giovanni IV verso la fine dell’Ottocento.
Gli Amhara si considerano l’elite etiope diretta rappresentante della
discendenza degli Imperatori, che terminò con Haile Selassie. I tigrini
si considerano i diretti discendenti di
Menelik I (figlio di
Makeda, Regina di Saba e di
Re Salomone).
Gli Amhara mantennero il potere fino al 1991, quando la ribellione,
composta per la maggioranza da Tigrini, destituí con la forza il regime
di Mengistu. Dopo la caduta del regime, gli eritrei hanno riposto grandi
speranze che le due etnie dominanti smetessero le loro rivalità
storiche e accettassero una equa distribuzione del potere e delle
ricchezze con le etnie di origine bantu e somala e altri clan di origine
nilotica.
Il
Governo di Meles Zenawi (strettamente controllato dai tigrini), dal 1991,
ha promosso una politica di federalismo etnico rientrante nella ‘Questione Nazionale’. Una politica che
sulla carta prevede la creazione di un Paese federale e multietnico
dove viene garantito l’equilibrio tra le diverse etnie, privilegiando
lo sviluppo nazionale e penalizzando quello etnico e clanico.
L’inganno del progetto federale e multietnico risiede nell’aver affidato la sua realizzazione all’etnia Tigrina,
che ha incanalato la ‘Questione Nazionale’ secondo i propri interessi
clanici, mitigando, ma non eliminando, il ‘diritto divino’ di governare.
L’i
dentità nazionale etiope (vantata come uno dei successi governativi)
rimane un bluff dove le altre etnie, sopratutto quelle bantu e Oromo,
si sentono escluse.
Mentre gli Amhara rivendicano ancora il diritto di governare tutta
l’Etiopia, la maggioranza degli altri gruppi etnici non riconoscono la
paventata unione nazionale della Etiopia, affermando che tutt’ora il
Paese non possiede una storia, una cultura e una lingua comune.
Le unità inter-etniche storicamente sono avvenute solo per combattere
gli invasori turchi, italiani, egiziani e sudanesi. La situazione
odierna sembra peggiorata, in quanto
si assiste ad un aumento del potere da parte della etnia Tigrina,
anche a scapito dei Amhara nei settori chiave: militare, economico e
politico. Secondo la maggioranza delle altre etnie non esiste ancora
‘una’ Etiopia, ma solo un Paese dove la storia, la lingua e la cultura
dell’etnia al potere viene imposta lasciando due scelte agli altri
gruppi etnici: l’assimilazione o la guerra. Se non mitigata o risolta,
la secolare conflittualità Amhara-Tigrini può divenire la principale causa dell’implosione sociale dell’Etiopia.
Una drammatica testimonianza di ciò è nelle recenti
manifestazioni -in piazza Meske, ad Addis Abeba-
di protesta della distribuzione clanica ed etnica delle ricchezze nazionali
imposta dal Governo a favore dei Tigrini. Proteste promosse dagli
Amhara e dai Oromo, violentemente soppresse dalle Forze dell’Ordine con
un bilancio provvisorio di 100 morti, seguito da una brutale ondata
senza precedenti di arresti politici. Le proteste si sono estese anche
in 10 città della regione Oromiya, tra le quali Ambo, Dembi Dolo e
Nemeit.
L’attuale situazione rende incerte le sorti del leader dell’opposizione,
Andargachew Andi Tsege, condannato da Addis Abeba alla pena capitale. Il cittadino etiope britannico é il fondatore del parito d’opposizione
Ginbot 7,
classificato dal Governo come organizzazione terroristica. Tsege fu
arrestato nel 2014 dalle autorità yemenite ed estradato in Etiopia. Il
conflitto sociale scoppiato in Etiopia, che occulta squilibri etnici,
sarà
un altro banco di prova della capacità della Unione Africana a condurre
il continente verso la pace e il benessere socio economico.
Fonte:
http://www.lindro.it/etiopia-modello-cinese-e-conflittualita-etnica/3/