Speciale per Africa Express
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 6 novembre 2015
Secondo alcune fonti burundesi, definite dal
giornalista italiano di base a Kampala Fulvio Beltrami “degne di
fiducia”, milizie FDLR e Imbonerakure, coadiuvate da forze di polizia e
bassa manovalanza hutu arruolata nelle scorse settimane nelle campagne
con fiumi di birra e magnifiche promesse, starebbero preparando in
queste ore l’attacco definitivo ad alcuni quartieri della capitale del
Burundi Bujumbura (Nyagabiga, Murakura, Cibitoke, Ngagara), alla ricerca
selettiva di cittadini burundesi di etnia tutsi.
L’ordine dato alle milizie hutu-power sarebbe di non
far uscire vivo “nessun terrorista” dal Burundi e di isolare i
quartieri a maggioranza tutsi, nei quali uomini, donne e bambini si
starebbero mobilitando per una difesa armata con ogni oggetto offensivo
possibile: armi da fuoco, machete, spranghe, martelli, una resistenza
che se si giungesse allo scontro definitivo potrebbe causare molte
vittime.
Nel frattempo nei pressi della capitale, nel
distretto di Bujumbura Rural, le forze di liberazione organizzate dalla
FORSC (Forum per il Rafforzamento della Società Civile) e comandate da
tre ex-generali dell’esercito, composte perlopiù da disertori burundesi,
avrebbero ricevuto armamenti dai paesi vicini e starebbero muovendo
sulla capitale fronteggiati da cinque battaglioni delle FDLR ruandesi,
la nuova guardia personale di Nkurunziza, molto ben armati e addestrati.
Nelle scorse settimane infatti alcune forze speciali dell’Esercito
Popolare di Liberazione Cinese sarebbero atterrati a Bujumbura in
sostegno a Pierre Nkurunziza.
Violenza e terrore, colpi di fucile automatico,
granate, tintinnio di machete, odore nauseabondo di morte: Bujumbura, la
capitale del Burundi, è teatro oramai da settimane di vere e proprie
prove tecniche di genocidio. Il Presidente Pierre Nkurunziza, pastore
protestante al suo terzo e illegittimo mandato, ha sostituito le proprie
guardie del corpo con miliziani ruandesi dell’FDLR (Forze Democratiche
per la Liberazione del Rwanda), già tragicamente famosi per i “100
giorni” del 1994, quando circa un milione di persone furono trucidate
nel silenzio complice di tutto il mondo “civilizzato”.
Il legame tra Nkurunziza, che domenica ha inviato
moglie e figli in Tanzania, e le milizie hutu-power rwandesi giunte in
soccorso della spaventosa Lega Giovanile del CNDD, meglio nota come
Imbonerakure (quelli che vedono lontano) addestrata da FDLR in Congo già
da almeno due anni e avente funzione di milizia paramilitare del regime
burundese, è oramai consolidato. Secondo molti analisti l’unico sbocco
possibile, al netto di un (per ora improbabile) intervento
internazionale, è quello di un nuovo genocidio.
Nkurunziza, che appare e scompare come un fantasma, è
oramai alla mercè dei miliziani FDLR e mantiene l’esercizio del potere
grazie a omicidi mirati, epurazioni e l’eliminazione di ogni forma di
opposizione: un preludio a quello che potrebbe essere un nuovo Olocausto
africano.
Giovedì 5 novembre il primo vicepresidente della
repubblica Gaston Sindimwo ha usato parole durissime nei confronti di
oppositori e società civile:
“Siete stati avvertiti, useremo tutti i
mezzi: anche gli aerei. Che i leader politici avvertano i loro
sostenitori: non c’è più spazio per le polemiche, la ricreazione è
finita”. Parole che fanno tremare i polsi in vista della fine
dell’ultimatum alla resa, che scade il domani 7 novembre, dato dal
governo agli oppositori, e che fanno il paio con quelle del Presidente
del Senato
Révérien Ndikuriyo, il quale, intervenendo pubblicamente e non sapendo di essere registrato, ha sbraitato:
“Il giorno in cui sentirete la parola ‘lavoro’ vedrete la differenza! […] vedrete la differenza quando (la polizia, nda)
riceverà l’ordine di lavorare”.
Ndikuriyo ha l’arduo compito di reclutare, nei quartieri, nei villaggi e fino alle zone più remote del paese, manovalanza per le violenze: con lui
Pascal Nyabenda,
presidente dell’Assemblea Nazionale, gira il paese promettendo alla
popolazione hutu la confisca dei beni ai tutsi e la loro
redistribuzione, uno stipendio dignitoso, la rivalsa etnica finale.
Nell’immediato il regime fornisce ai contadini fiumi di birra, memori
della saggezza che l’uomo bianco ha saputo esportare in tutto il mondo,
aizzando masse di ubriachi ignoranti plagiati dall’odio etnico profuso
dal regime: “Kora! Kora!” urlano loro le milizie FDLR.
La questione è legata alle tempistiche: in forte
ritardo, anche la comunità internazionale, dall’Unione Africana alle
Nazioni Unite fino all’Unione Europea, ha espresso profonda
preoccupazione e intimato al regime di Nkurunziza di cessare le violenze
sulla popolazione. Tempo concesso: 30 giorni.
Un’infinità, se consideriamo che era il 03 aprile
2014 quando Parfait Onanga-Anyanga dell’Ufficio delle Nazioni Unite in
Burundi informava Jeffrey D. Feltman, sotto segretario al quartier
generale delle Nazioni Unite a New York, dell’avvenuta distribuzione di
armi e uniformi di esercito e polizia ai giovani miliziani
Imbonerakure: quel rapporto però non ha sortito alcun effetto, almeno fino a questo momento.
Sono mesi che le Imbonerakure, con l’esercito
burundese prima e con le milizie FDLR poi, rispondono con la violenza
alle richieste della popolazione: la situazione ha continuato a
deteriorarsi, i morti sono oramai già migliaia e ogni giorno i quartieri
Mutakura, Cibotoke, Ngarara Musaga, Jabe della capitale Bujumbura
vivono intensi attacchi sotto le granate, nel terrore di assassini e
rastrellamenti. In particolare la violenza si sta scatenando contro i
tutsi burundesi, una violenza non solo fisica ma anche verbale.
Nell’operazione mediatica di copertura del nuovo
genocidio africano il linguaggio ha infatti un ruolo essenziale: i tutsi
(gli “scarafaggi” del 1994) vengono oggi definiti sui media burundesi
“terroristi Al-Shebab”, come i jihadisti somali, Nkurunziza sembra
aprire al dialogo (lunedì 2 novembre in un discorso alla televisione
nazionale) ma non con i suddetti “terroristi”. Le parole più
emblematiche sono però quelle del presidente del Senato, che quando usa
il termine “lavoro” richiama proprio alla parola d’ordine che diede il
via al genocidio in Ruanda nel 1994: sulle pagine Facebook di alcuni
sostenitori hutu-power del regime burundese compaiono sempre più spesso
fotografie di machete ben affilati recanti status del tipo:
“Le elezioni sono finite, ora andiamo al lavoro”.
Allo stesso modo, la cautela con cui il resto del
mondo si sta pronunciando contro Nkurunziza è figlia proprio dalla
terminologia: “genocidio” è una parola, nella regione dei Grandi Laghi,
da pronunciare con le dovute cautele perché riapre ferite mai
completamente rimarginate: il rischio di una deflagrazione dell’odio
etnico nella regione avrebbe conseguenze inimmaginabili.
Il Rwanda, sostenuto dall’Uganda, accusa il Burundi
di offrire protezione alle milizie genocidarie FDLR, tra le quali si
nascondono molti generali complici e autori del genocidio del 1994, e di
averle integrate con forze hutu-power fresche mentre il Burundi accusa
il Ruanda di nascondere ex-funzionari e avversari politici scappati
all’estero.
Nel frattempo le FDLR soffiano sul fuoco dell’odio
etnico, risvegliando il ricordo della guerra civile burundese nel
dittatore Nkurunziza: in tal senso, tornano alla mente le parole che lo
stesso Nkurunziza pronunciò in un’intervista rilasciata nel 2004
all’agenzia stampa IRIN:
“Nel 1995, l’esercito tutsi attaccò il
campus ed uccise 200 studenti. Essi tentarono di uccidere anche me. Gli
attaccanti spararono alla mia automobile ma riuscii a fuggire. Diedero
fuoco alla mia auto. A quel punto mi arruolai come soldato nel CNDD-FDD.
Questa guerra ci fu imposta, non l’abbiamo iniziata noi”,
ricordava l’allora segretario generale del partito, che l’anno
successivo sarebbe diventato presidente. Oggi centinaia di migliaia di
burundesi, sopratutto tutsi ma anche moltissimi hutu che si oppongono al
regime di Nkurunziza, affollano i campi profughi nella Repubblica
Democratica del Congo, in Tanzania e in Ruanda.
Lo spettro ruandese è vivo oggi più che mai nei
piani del regime burundese: Nkurunziza, lo raccontano i fatti, sembra
determinato a non dialogare in nessun modo con gli oppositori, vuoi per
il timore di una vendetta delle FDLR vuoi per una strategia politica
dissennata. Secondo David Gakunzi, intellettuale burundese che vive in
Francia intervistato dal quotidiano Liberation, fin dall’inizio della
crisi il regime ha fatto di tutto per rinfocolare l’odio tra hutu e
tutsi con un sapiente lavoro fatto di omicidi mirati sia di oppositori
che di “nemici interni” definiti “animali traditori” in kirundi e
“terroristi” in lingua francese.
Mentre di giorno il paese cerca di prendere fiato,
di notte le violenze imperversano ovunque: tutsi torturati e uccisi,
intere famiglie massacrate, oppositori hutu pestati e arrestati. Secondo
il giornalista Fulvio Beltrami, che riporta i racconti di testimoni
oculari, pochi giorni fa un corteo funebre di ritorno dal funerale di un
giovane ragazzo assassinato dalla polizia è stato attaccato a Buringa,
nel comune di Gihanga vicino all’aeroporto di Bujumbura, dalle FDLR
ruandesi che hanno compiuto una carneficina: sedici persone sono state
uccise sul posto, altre portate nei campi e decapitate. L’ordine al
massacro è stato dato dal colonnello
Desire Nduwamahoro, comandante delle unità anti sommossa della polizia.
Questo episodio, apparentemente di scarsa rilevanza,
è in realtà solo l’apice del formicaio: intere zone del paese sono
isolate e il regime ha creato tutti i presupposti, sociali, mediatici e
militari, per scatenare l’inferno a partire dalla scadenza
dell’ultimatum: sabato 7 novembre.
Ufficialmente l’obiettivo sarà il disarmo di chi non
ha obbedito all’ordine di resa (armandosi proprio per contrastare il
regime hutu-power), con fantomatiche promesse di amnistia dopo qualche
mese di campi di riabilitazione: la storia degli ultimi 20 anni e i
protagonisti nella storia recente del Burundi suggeriscono però un
rischio molto più alto, in termini di vite umane.
Tra l’8 e il 10 novembre prossimi il Burundi
potrebbe trasformarsi in una fossa comune di dimensioni inimmaginabili:
il tempo “concesso” dalla comunità internazionale è infinitamente lungo,
vista la manifesta intenzione di “terminare il lavoro” per Natale, e
sembra che il regime non abbia comunque alcuna intenzione di cedere.