venerdì 28 ottobre 2016

Somalia: chi sono gli islamisti affiliati a Daesh che hanno occupato la prima città del Puntland di Andrea Spinelli Barrile




Il leader di Jabha East Africa, gruppo islamista legato a Daesh, il somalo Abdulqadir Mumin, ex affiliato a al-Shabaab, mentre legge un comunicato in un video diffuso sui network di propaganda dello Stato Islamico. Somalia, Luglio 2015. Frame video | Jabha East Africa

Il leader di Jabha East Africa, gruppo islamista legato a Daesh, il somalo Abdulqadir Mumin, ex affiliato a al-Shabaab, mentre legge un comunicato in un video diffuso sui network di propaganda dello Stato Islamico. Somalia, Luglio 2015. Frame video | Jabha East Africa
La piccola città di Candala nel Puntland, nord della Somalia, dalla mattina di mercoledì 26 ottobre 2016 è sotto il controllo circa di 60 islamisti somali che sostengono di essere affiliati allo Stato Islamico: la città sarebbe caduta senza alcuna resistenza e senza scontri, secondo quanto riferito da diverse agenzie stampa.
Candala è una piccola città costiera che affaccia sul golfo di Aden, nord-ovest della Somalia: si trova in linea d'aria a circa 70 chilometri a est di Bosaso ma per raggiungerla occorre percorrere quasi 400 chilometri di strada nell'entroterra del Puntland.
È la prima volta che una città di questa regione della Somalia cade sotto il controllo di miliziani islamisti, siano essi shabaab, qaedisti o legati a Daesh: i funzionari amministrativi di Candala hanno lasciato la città poco prima dell'occupazione dei miliziani e il borgomastro Jama Mohamed Mumin ha confermato, per quanto possibile, l'identità del gruppo: Stato Islamico. Probabilmente uomini fedeli al somalo Abdulqadir Mumin.
“Candala è caduta questa mattina” ha dichiarato all'AFP Mohamed Muse, uno dei capi tradizionali della città: “Una milizia islamica ha preso d'assalto la città e ha detto alla gente che erano sotto il loro controllo. […] I pescatori riferiscono che la città è stata presa e non sono andati per mare: i combattenti islamisti hanno preso posizione lungo la costa e in diversi luoghi della città. Non sappiamo chi sono” ha detto invece a Jeune Afrique un residente del villaggio di Karin, Abdiweli Adan. Secondo diversi funzionari amministrativi citati dalle agenzie stampa internazionali parte della popolazione è fuggita all'arrivo degli islamisti ma per ora le autorità della regione del Puntland non hanno commentato le notizie da Candala.
Secondo quanto ha riferito un residente anonimo a VOA News gli anziani locali hanno cercato una mediazione, probabilmente ancora in corso, con gli islamisti: si sarebbero incontrati con loro chiedendogli di lasciare Candala e di ritirarsi ma i miliziani non sembrerebbero intenzionati a cedere di un millimetro.
Il Puntland è una regione semi-autonoma dal 1998 che fa parte dello Stato Federale della Somalia, ma che contrariamente alla regione secessionista del Somaliland non ha mire separatiste: il sistema politico locale, basato su clan familiari, è attualmente il migliore che ci sia nel martoriato Paese africano. Effettivamente la regione vive bene o male in pace, a differenza del resto del Paese controllato a macchia di leopardo dagli ex-signori della guerra diventati islamisti al-Shabaab e affiliatisi ad al-Qaeda, può vantare un sistema di welfare che funziona e che attrae gli investimenti di capitali stranieri, che sono possibili in tutta sicurezza. Una sorta di isola felice all'interno della Somalia, anche se nel mese di marzo le forze di sicurezza hanno scongiurato l'occupazione di alcuni villaggi costieri da parte di diverse decine di miliziani Shabaab nel Puntland orientale.
La regione è però anche l'enclave di un gruppo di combattenti islamisti armati al guinzaglio del somalo Abdulqadir Mumin (Shaykh ‘Abd al-Qadir Mu’min), un ex-signore della guerra ed ex-religioso di al-Shabaab che si è arricchito enormemente con il traffico di armi e che un anno fa ha giurato fedeltà al Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Un tempo residente a Londra, Mumin è rientrato in Somalia a metà del 2010 e già un anno più tardi era famoso tra gli attori principali di al-Shabaab. Il suo piccolo esercito è oggi stimato in circa 200 miliziani, ma secondo altre voci questi sarebbero di più, forse 300. Il mese scorso il Dipartimento di Stato americano ha inserito Mumin nella lista dei maggiori ricercati internazionali accusandolo di “terrorismo”; nonostante il predominio di al-Qaeda non sia in alcun modo in discussione, per ora, in tutta l'Africa orientale la frattura causatasi internamente agli Shabaab sta producendo i suoi primi effetti: fino al 22 ottobre 2015 Abdulqadir Mumin era considerato il braccio destro di Ayman al-Zawahiri in Somalia, il medico egiziano oggi al vertice dell'organizzazione islamista fondata da Bin Laden, ma con la rottura tra i due Mumin ha scelto il Puntland per ripararsi dagli attacchi delle forze anti-islamiste e dei caschi verdi presenti in Somalia, ma anche per proteggersi dalle ritorsioni degli stessi Shabaab. Quel giorno un file mp3 di pessima qualità pubblicato online e diffusosi sui social network ha creato scalpore tra gli islamisti somali, oltre che tra gli analisti internazionali: l'ideologo, stratega e grande amico di al-Qaeda passava con il nemico, il Califfo.
L'uomo Mumin è piuttosto pittoresco: dai lineamenti e dalla carnagione scura tipicamente somali, indossa sempre vestiti tradizionali, occhiali da vista rettangolari e si tinge la barba di rosso (o meglio, di un rugginoso arancione) utilizzando l'henné, come molti altri uomini anziani somali, che in genere non amano vedere la propria barba ingrigire o imbiancarsi. In Somalia la barba rossa non è solo un elemento estetico ma anche quasi uno status symbol: è ancora molto di costume tra gli uomini maturi per sposare donne più giovani, che i tradizionalisti esibiscono quasi come trofei, e fino a qualche tempo fa era considerato un elemento estetico di lusso, perché costoso e perché impiega tempo per la sua applicazione.



In questo video pubblicato il 26 ottobre su diversi social network di propaganda islamista del gruppo Stato Islamico si possono osservare alcune immagini dei miliziani somali: tutti in mimetica e kefiah, travisati da passamontagna neri a parte il loro leader Mumin, armati di AK-47 e con le bandiere nere di Daesh in ogni fotogramma.
Il gruppo di Mumin si fa chiamare Jahba East Africa ma non ha fatto molto oltre a rivendicare decine di volte la sua appartenenza allo Stato Islamico: qualche sparatoria in Kenya e in Tanzania e molta comunicazione, niente di più. Jahba East Africa si nasconde attorno e dentro la catena montuosa di Golis ed è formato perlopiù da uomini tra i 20 e i 25 anni che hanno disertato con Mumin da al-Qaeda. È quindi probabile che siano stati gli uomini di Mumin a occupare militarmente la città di Candala, non fosse altro perché in Somalia sono attualmente gli unici ad esibire il marchio di Daesh.
Candala, seppur piccola e apparentemente insignificante rispetto a Bosaso, si trova in una posizione strategica sul golfo di Aden, di fronte allo Yemen: quest'anno diverse spedizioni navali di armi mascherate da missioni navali antiterrorismo sono state intercettate dalle autorità del Puntland. Come ricorda VOA News Abdi Hassan, ex-direttore dei servizi d'intelligence del Puntland, tempo fa aveva lanciato un allarme circa la consegna di forniture di armi agli islamisti nel Puntland dai loro sodali yemeniti: “Hanno ricevuto forniture militari dallo Yemen - armi, munizioni, uniformi, esperti dell'Isis per fare loro formazione” ha detto Hassan spiegando che “la spedizione è stata consegnata via mare partendo dalla città di Mukallah, nel governatorato yemenita di Hadramawt” che si trova esattamente di fronte a Candala, dall'altra parte del golfo di Aden.

http://it.ibtimes.com/somalia-chi-sono-gli-islamisti-affiliati-daesh-che-hanno-occupato-la-prima-citta-del-puntland 

Africa in prima linea per la difesa del Pianeta

Lo storico stop ai gas HFC e l'adozione della 'Carta di Lomè' per la sicurezza marittima africana

montreal




Kampala  –  Nelle prime settimane di ottobre il continente africano è stato protagonista di due storici accordi sulla protezione ambientale per la salvaguardia del Pianeta e delle sue specie (umana compresa). A Kigali, Rwanda, è stato finalmente adottata l’eliminazione progressiva dei gas HFC, una tra le principali cause dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici, emendamento inserito all’interno del Protocollo di Montreal.  A Lomè, Togo, tutti i Paesi africani hanno adottato una Carta vincolante per la protezione dei mari, la promozione dell’economia blu e la lotta contro la pirateria internazionale. Due traguardi storici per l’umanità. La diplomazia africana è riuscita a convincere le potenze più recalcitranti come Stati Uniti, Cina e India, facendo comprendere che il Pianeta Terra è unico nella nostra galassia e la sua distruzione un folle suicido della razza umana.
Dopo quattro giorni di intense negoziazioni è stato raggiunto l’accordo riguardante la progressiva eliminazione dei gas HFC grazie agli emendamenti dell’articolo 5 e articolo 2 del Protocollo di Montreal. Si tratta di una rivoluzione ambientale di portata storica che obbliga ad una radicale rivoluzione della produzione mondiale di frigoriferi, sistemi di raffreddamento industriale e apparecchiature di aria condizionata. Tra il 2019 e il 2028 saranno vietate in tutto il mondo la produzione di questi specifici elettrodomestici che utilizzano i gas responsabili della drastica diminuzione dell’ossigeno e dell’aumento dell’effetto serra. Le industrie del settore saranno obbligate a trovare nuove tecnologie compatibili con l’ambiente.
L’eliminazione di antiquate e dannose tecnologie produttive sarà graduale. I paesi sviluppati dovranno rispettare la scadenza del 2019 – 2020. Russia, India, Sud Africa, Pakistan, Cina, Iran, i Paesi latinoamericani ed est europei dovranno rispettare la scadenza del 2026 mentre i Paesi in Via di Sviluppo avranno tempo fino al 2028. L’accordo eviterà l’emissione nella atmosfera di 70 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti alla chiusura di 750 impianti energetici a carbone. Per i negoziatori africani, ruandesi in prima fila, l’ostacolo più duro da superare sono state le reticenze della Cina. La ferma determinazione dei diplomatici africani ha superato ogni ostacolo riportando pazientemente alla ragione il Partito Comunista Cinese.
Il meeting di Kigali è riuscito a raggiungere un accordo storico, disatteso nei precedenti meeting di Parigi e Montreal. Questa è la chiara dimostrazione che l’Africa è il Continente più all’avanguardia nella lotta contro la distruzione del Pianeta e nella salvaguardia di ogni specie vivente. L’impegno di tutte le Nazioni a rispettare la Natura è il migliore regalo che sia stato mai offerto all’umanità.” afferma orgoglioso Vincent Biruta, Ministro delle Risorse Naturali del Rwanda e residente del Ventottesimo Meeting dei firmatari del Protocollo di Monteral (MOP28).
L’accordo raggiunto a Kigali è di portata storica. Questo è stato il giorno dove tutti i potenti del Pianeta si sono resi finalmente responsabili dinnanzi alle future generazioni. È stato veramente eccitante ed entusiasta lavorare al fianco della diplomazia africana osservando la sua determinazione a raggiungere l’accordo. Un successo del tutto inaspettato”, afferma l’Amministratrice della Agenzia Americana di Protezione Ambientale Gina McCarthy.
L’Unione Africana, grazie al sostegno del governo ruandese, è riuscita a far accettare alle potenze mondiali l’impegno finanziario vincolante di aiuti verso le Nazioni povere che dovranno eliminare la produzione e il commercio dei prodotti dannosi. Al momento gli impegni firmati ammontano a 80 milioni di dollari. I diplomatici africani sono sicuri che questa somma sia solo una modesta parte degli impegni finanziari che i Potenti dovranno assumere in solidarietà verso le Nazioni più sfortunate. Il successo del MOP28 di Kigali risiede nella applicazione pratica del concetto di ‘pericolo comune’ tipico della cultura di tutte le società africane. Un concetto che obbliga ogni membro della comunità a dimenticare le divergenze e conflittualità interne per far fronte unico ad un pericolo esterno comune, in questo caso rappresentato da un distorto concetto di sviluppo industriale originato dalla distruttrice ideologia capitalistica del liberalismo assoluto.
Critici internazionali affermano che i risultati del MOP28 rimangono di entità modesta in quanto al meeting di Kigali non è stata toccata la causa prima del cambiamento climatico: l’utilizzo dei combustibili fossili. L’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha lanciato un allarme sull’aumento dei gas CO2 nell’atmosfera. Nel 2015 si è registrato un considerevole aumento dell’anidride carbonica, principale responsabile del riscaldamento climatico. I livelli di concentrazione nell’atmosfera hanno oltrepassato la soglia tollerabile: 400 ppm (particelle per milione). L’eliminazione progressiva del CO2 negli elettrodomestici e apparecchiature di raffreddamento è giudicata troppo dilatata. Occorrono politiche rivoluzionarie ed immediate.


Critiche ed osservazioni non ignorate dagli organizzatori africani del MOP28 che, rispondono con un vecchio proverbio caro al Continente: “Il Palazzo del Re si costruisce non dal tetto ma dalle fondamenta”. Il governo del Rwanda, uno tra i Paesi all’avanguardia per la protezione ambientale e l’utilizzo di energie alternative ha promesso di continuare ad impegnarsi per la protezione del Pianeta Terra e dell’umanità. Una promessa fatta da una Nazione testarda e orgogliosa, forgiata dal sacrificio di un milione di suoi cittadini.
A Lomè, Togo, 43 Paesi africani si sono riuniti per prendere in mano i destini del patrimonio marittimo del Continente, minacciato dalla pirateria internazionale e dalla distruttiva pesca intensiva attuata illegalmente da Europa, Cina, India, Stati Uniti. L’Unione Africana, sotto la guida del presidente ciadiano Idris Debi Itno, ha ottenuto la firma di tutte le 43 Nazioni per una carta vincolante della protezione e sicurezza dei mari africani. Una carta tesa ad eradicare la pirateria dalle coste del Continente, bloccare il genocidio della fauna marittima attuato da industrie occidentali ed asiatiche e proteggere i delicati equilibri ambientali marini.
Gli Stati firmatari si sono impegnati a mettere a disposizione le risorse finanziarie e militari necessarie per contrastare le bande piratesche che infestano le acque somale e del Golfo della Guinea così come l’arresto senza condizioni di tutti i pescherecci sorpresi in attività di pesca intensiva illegale nelle acque territoriali africane. Una guerra dura che conoscerà martiri e vittime ma resa possibile dalla storica perseveranza africana di giungere alla vittoria totale e definitiva sul nemico.
L’accordo e gli impegni presi sono considerati di vitale importanza per lo sviluppo del Continente che diede origine alla specie umana. Il 90% delle importazioni, esportazioni avvengono per via marittima. La difesa dei corridoi marittimi africani è nell’interesse anche delle potenze occidentali e asiatiche. L’Organizzazione Marittima Internazionale ha registrato 27 attacchi di pirati avvenuti nel Golfo della Guinea nel primo semestre 2016. In 14 casi sono stati coinvolti navi petroliere e commerciali asiatiche, europee e americane. La guerra contro i pirati verrà condotta con la collaborazione delle marine militari europee e cinese. In prima fila si riscontra l’impegno offerto da Parigi. Un impegno non disinteressato considerando che per la Francia è di vitale importanza proteggere le rotte marittime per il commercio dalle colonie alla Madrepatria.
L’Unione Africana ha chiesto la collaborazione di Bruxelles, Washington, Mosca, New Delhi e Pechino nella lotta contro la pesca intensiva illegale, spesso attuata da battelli su cui sventolano le bandiere di queste potenze mondiali. Ai partner stranieri è stato richiesto maggiore severità nell’impedire tale distruttrice pratica e più severe misure penali contro le ditte coinvolte. L’Unione Africana ha richiesto alle Nazioni Unite di inserire la pesca illegale nei crimini contro la fauna marittima e nei crimini commerciali. A tale proposito vari Paesi africani hanno chiarito la loro intenzione di condurre la lotta contro i battelli illegali con le stesse determinazione e ferocia che saranno utilizzate nella lotta contro la pirateria, avvertendo che potrebbero verificarsi casi di affondamento dei battelli e arresto degli equipaggi in caso di resistenza alle forze marittime africane.
Risolto il problema della pesca illegale l’Unione Africana, tramite il trattato di Lomè, intende promuovere l’economia blu. Mari, oceani, laghi e fiumi sono un bene prezioso per l’umanità ma anche una fortuna economica che, se ben sfruttata, crea posti di lavoro e ricchezza. Lo sfruttamento delle risorse idriche deve essere ecologicamente compatibile per non provocare danni ambientali irreparabili. È questo l’impegno firmato dai 43 Paesi africani desiderosi di sviluppare una economia blu che non danneggi la Natura.
Gli afro-scettici sulla questione della lotta alla pirateria e pesca illegale, evidenziano la mancanza di mezzi finanziari per realizzare questi buoni propositi. Gli Stati costieri africani dispongono di marine militari assai limitate, ad eccezione del Egitto e del Sud Africa. Le attuali navi da guerra africane sono vetuste e le unità di sorveglianza costiera insufficienti per garantire una seria lotta contro i pirati e i battelli di pesca illegale. Le ragioni apposte non sono prive di fondamenta. Riflettono l’attuale realtà militare delle forze di difesa marittima africane. Quello che gli afro-scettici non tengono in considerazione è la determinazione tutta africana di porre il Continente alla leadership mondiale. Una determinazione che spinge i vari Governi ad azioni ardite e inaudite. A tutti gli scettici la risposta più adeguata rimane: “Wait and see”.

http://www.lindro.it/africa-in-prima-linea-per-la-difesa-del-pianeta/