domenica 18 ottobre 2020

Restiamo umani

 Tra i ricordi dell'anno scorso ho trovato questo post. Mi ha fatto rabbrividire alla luce dei nuovi avvenimenti che STANNO TOCCANDO TUTTO IL MONDO. Mi sono detta che al confronto di quel bambino-adulto, noi continuiamo ad essere adulti-bambini. Non sappiamo affrontare le difficoltà e facciamo tante storie per una mascherina che ha il compito tra l'altro di tutelarci e tutelare. Mi viene uno sconforto a sentire le voci di tutti gli opinionisti che passano per la TV , che ancora giocano a chi si mette più in mostra, esattamente come i politici. La storia di quel bambino è una delle tante storie che ancora girano per il mondo e sono convinta che di fronte al COVID tutti quei bambini, perchè sono milioni di bambini, non si comportanto superficialmente, anzi affrontano il dolore con coraggio senza lamentarsi.Noi che facciamo parte delle zone della Terra dove tutto è uno spreco, dovremmo imparare da chi non ha niente e che ha imparato come si affronta il dolore.


Angelo Morsellino

  Mohamad un mese fa mi ha rivelato un segreto che avrei preferito non sapere. Era sera, giocavamo fuori al campo insieme agli altri bambini rifugiati con la musica a palla, mentre alcuni volontari ballavano e i piccoli facevano a gara per salire sulle spalle di Alexis.

Questo quadro idilliaco ovviamente è interrotto di continuo dalle numerose risse che avvengono tra i bambini, c’è sempre qualcuno che litiga, che piange o che cade. Così, mentre Mohamad era per i fatti suoi a ballare, un piccolo mostriciattolo con le corna lunghe fino ad Aleppo (per restare in tema) gli salta sulle spalle e lo spinge a terra, per poi scappare: lo abbiamo rincorso fino a costringerlo a tornare indietro e chiedergli scusa. Intanto Mohamad si era alzato da terra e si trascinava la gamba, così mi accorgo che si era graffiata sulle pietre e sanguinava.

“Aspetta non ti muovere prendo l’acqua” gli dico in inglese, ma non faccio in tempo a girarmi che mi dice “Tranquillo!” mentre sputa sulla ferita. “Ma no! Fermo!” gli dico facendolo sedere in braccio a me e pulendogli la gamba con la bottiglietta d’acqua. Lì per lì ero fiero di quanto fosse coraggioso Mohamad, non aveva versato una lacrima e quella gamba doveva fargli male parecchio.

Intanto il sole calava, i bambini man mano tornavano dentro alle tende a mangiare quel cibo preconfezionato e quasi avariato che gli arriva ogni giorno e fuori, a giocare, ne restavano sempre di meno.

Mohamad ogni tanto faceva il giro dei volontari elemosinando abbracci, voleva restare stretto per più tempo possibile e poi tornava a giocare. Quando tornò vicino a me mentre lo stringevo gli dissi che era tardi, che era meglio se tornava alla sua tenda insieme al suo gemellino prima che facesse buio, che magari qualcuno lo stava cercando.

Si staccò da me e mi fece ”no” con la testa.

“Mamma e papà non ci sono più” e si rilanciò tra le mie braccia.

Lo sapevo bene che molti bambini arrivavano senza genitori, perché spesso erano gli unici della famiglia a sopravvivere ai barconi e non morire tra le onde. Però realizzare quello che era successo a Mohamad mi travolse come un treno.

Intanto gli altri volontari mi dissero di chiamare un taxi che così tornavamo verso gli alloggi, visto che i campi sono lontani dai centri abitati, tra i boschi, e la nostra giornata non era comunque finita.

Feci finta di chiamarlo, non volevo lasciare Mohamad, non potevo.

Quel treno continuava a camminarmi addosso e ad ogni fermata pensavo a quanto tutto ciò era chiaro fin dall’inizio: i vestiti erano di taglie sbagliate, per giorni non aveva le scarpe, ma solo delle ciabatte di quattro numeri più piccole e nessun genitore era andato a protestare, finché non gliele abbiamo comprate noi. Aveva perfino perso il diritto di piangere dopo essere stato menato da un altro bambino. Il diritto di farsi consolare. Di essere medicato. Quello sputo sulla ferita era il segno dell’infanzia che era rimasta in mezzo al mare, morta insieme alla sua famiglia. Mohamad era salito su quella barca da bambino ed era sceso da uomo.

Non so quanto tempo abbiamo passato così, tanto che Luisa ci ha fotografati.

Mentre pensavo questo, lo stringevo sempre più forte e sono quasi certo che per lui aveva poca importanza che fossi io a farlo. Probabilmente Mohamad si immaginava tra le braccia di suo padre, di suo fratello o di qualcuno che gli mancava.

Intanto sentivo i volontari che dicevano che era più di un’ora che aspettavamo e quello stronzo di tassista neanche arrivava. Non gli ho mai detto che non l’avevo chiamato, mi sono unito al loro coro arrabbiato e ho proposto “chiamatene un altro”.

Non volevo lasciare Mohamad, ma comunque prima o poi avrei dovuto farlo, anche se avessi passato la notte lì. Così chiesi a Luisa di accompagnare lui e suo fratello, che invece era avvinghiato a lei, vicino all’ingresso del campo, in modo da non lasciarli da soli per strada, con le auto che sfrecciavano senza preoccuparsi dei bambini che correvano.

Non profumava Mohamad, non profumava come dovrebbero profumare tutti i bambini della sua età, il suo odore era forte e di giorno provvedevano Luisa e Giusy a pulirlo alla meglio con le salviette imbevute. Il terreno, la polvere, il sudore, non erano lavati via da nessuno che si prendesse cura di lui. Ce l’avevo addosso quell’odore durante tutta la corsa in taxi fino a casa.

Quella sera ho fatto una doccia che non avrei mai voluto fare. E intanto pensavo a quel bambino, che diventava adulto in mezzo al mare, mentre a riva qualcuno gridava (e grida ancora), “affondateli”.

Restiamo umani. 


mercoledì 14 ottobre 2020

Adulto è colui che ha preso in carico il bambino che è stato, ne è diventato il padre e la madre.

 

Adulto è colui che ha curato le ferite della propria infanzia, riaprendole per vedere se ci sono cancrene in atto, guardandole in faccia, non nascondendo il bambino ferito che è stato, ma rispettandolo profondamente riconoscendone la verità dei sentimenti passati, che se non ascoltati diventano presenti, futuri, eterni.
Adulto è colui che smette di cercare i propri genitori ovunque, e ciò che loro non hanno saputo o potuto dare.
È qualcuno che non cerca compiacimento, rapporti privilegiati, amore incondizionato, senso per la propria esistenza nel partner, nei figli, nei colleghi, negli amici.
Adulto è colui che non crea transfert costanti, vivendo in un perpetuo e doloroso gioco di ruolo in cui cerca di portare dentro gli altri, a volte trascinandoli per i capelli.
Adulto è chi si assume le proprie responsabilità, ma non quelle come timbrare il cartellino, pagare le bollette o rifare le lavatrici. Ma le responsabilità delle proprie scelte, delle proprie azioni, delle proprie paure e delle proprie fragilità.
Responsabile è chi prende la propria vita in carico, senza più attribuire colpe alla crisi, al governo ladro, al sindaco che scalda la poltrona, alla società malata, ai piccioni che portano le malattie e all’insegnante delle elementari che era frustrata.
Sembrano adulti, ma non lo sono affatto.
Chi da bambino è stato umiliato, chi ha pensato di non esser stato amato abbastanza, chi ha vissuto l’abbandono e ne rivive costantemente la paura, chi ha incontrato la rabbia e la violenza, chi si è sentito eccessivamente responsabilizzato, chi ha urlato senza voce, chi la voce ce l’aveva ma non c’era nessuno con orecchie per sentire, chi ha atteso invano mani, chi ha temuto le mani: per tutti questi “chi”, se non c’è stato un momento di profonda rielaborazione, se non si è avuto ancora il coraggio di accettare il dolore vissuto, se non si è pronti per dire addio a quel bambino, allora “l’adultità” è un’illusione.
Io ho paura di questi bambini feriti travestiti da adulti, perché se un bambino ferito urla e scalcia, un adulto che nega le proprie emozioni è pronto a fare qualsiasi cosa.
Un bambino ferito travestito da adulto è una bomba ad orologeria.
Ciò che separa il bambino dall’adulto, è la consapevolezza.
Ciò che separa l’illusione dalla consapevolezza è la capacità di sostenere l’onda d’urto della deflagrazione del dolore accumulato.
Ciò che rimane dopo che il dolore è uscito è amore, empatia, accettazione e leggerezza.
Non si giunge alla felicità attraverso la menzogna.
Non si può fingere di non aver vissuto la propria infanzia.
Non si può essere adulti se nessuno ha visto il bambino che siamo stati, noi per primi.
Adulto è colui che ha preso in carico il bambino che è stato e ne è diventato il padre e la madre.
Janusz Korczak

venerdì 5 giugno 2020

Riflessione condivisibile


"Che agli italiani non piaccia questo governo, è possibile.
Non gli sarebbe piaciuto nessuno, in una situazione nuova e grave come questa.
Che agli italiani non piaccia Conte, è possibile.
Molti non sopportano il suo modo di parlare un po' leosiniano, la sua educazione, la sua calma o la difficoltà nell'arrivare al punto in due minuti, l'abitudine a non gridare, inveire, insomma, ad essere senza bava alla bocca.
Ma che gli italiani bestemmino, descrivendo questa situazione, come un regime dittatoriale, NO.
Siete ignoranti e viziati.
Fatevi raccontare cos'è una dittatura.
Piagnoni, esagerati e disinformati.
Vi manderei a chiacchierare in Cina.
Ma non ci arrivate, che se fossimo in regime dittatoriale, le opposizioni sarebbero, storicamente, contente?
Non sapete che è previsto un simile status in momenti di emergenza?
Pensate sareste vivi, se si fosse lasciato tutto al buonsenso personale?
Che libertà vi manca?
Quella di ammalarvi?
Perché la libertà di espressione, mi pare ce l'abbiate.
Può parlare il re dei coglioni e nessuno va a prelevarlo a casa.
È come se ci fosse un grande incendio, i pompieri ci tenessero lontani dal fuoco e noi a battere i piedi in terra, perché non ci fanno avvicinare alle fiamme.
In televisione avete i canali della squadra fascioleghista.
L'opposizione parla, non è imbavagliata.
Il potere, non è minimamente concentrato in una figura unica.
Avete questa idea delle dittature, come regimi in cui i medici vi inseguono per inocularvi vaccini, in cui dovete assolutamente scaricare un'app, in cui per indicazione degli scienziati, si mantengono restrizioni personali e pubbliche.
NON È COSÌ.
In dittatura, non sareste in grado di pensare, di parlare, di contestare.
In dittatura, il pensiero critico non germoglia, muore prima di nascere.
Non vi vaccinano, vi sparano.
Chi vive in dittatura, vi dovrebbe sputare in faccia per quello che dite.
Nessuno vi ha mai frustrato, imbavagliato, fatto sparire, per un articolo pubblicato su un giornale.
Eppure capita.
Ci sono paesi, in cui la criminalità è un unicum con le forze dell'ordine, non vi potete rivolgere alla polizia perché corrotta di default.
Il volere del regime, è instaurato con la violenza vera, fisica oltre che psicologica.
E voi, che pubblicate notizie inventate o tendenziose, senza pagare un euro, vi sentite in dittatura?
Ma in dittatura, ci risparmiavamo due mesi e mezzo di rottura di coglioni.
Se il vostro cervello, può partorire questi ragionamenti paranoici, di complotti mondiali, è proprio perché vivete in democrazia.
Non conoscete guerre, tragedie vere, veri dittatori.
Non conoscete libri.
Ogni volta che leggo la parola dittatura, riferita a questo paese, mi vergogno per voi.
Analfabeti, ignoranti.
Eh sì, vi meritate le offese.
Sputate su chi queste tragedie le vive nel quotidiano.
Su chi non ha la libertà di scrivere, pensare, amare.
E non perché fuori corre il rischio di morire, ma perché muore se scrive, pensa, ama.
Certo per voi è tutto scontato.
Ma prima di accostare il vostro paese, a paesi in cui l'omosessualità è reato, in cui decidono cosa devi leggere e scrivere, in cui se non rispetti un ordine, sei torturato o morto, fatevi un esame di coscienza serio.
È stato chiaro dal principio, che non eravamo in grado di autogestirci, per questo, siamo stati via via guidati, a fare CIÒ CHE AVREMMO FATTO SOLI, SE NON FOSSIMO IMBECILLI.
Guardatevi i dati di chi ha riaperto tutto.
E poi uscite a manifestare coi due pizzettari.
E buona fortuna." (
Valentina Conti)