venerdì 29 luglio 2011

PAPA' SI E' IMPICCATO AL CIE DI MILANO

In un paesino della provincia di Brescia lungo le rive del lago di Garda c’è una bambina di cinque anni che ha perso la voglia di giocare. Nella sua testa ha una sola e insistente domanda: “Ma papà quando viene?”. Perché papà non c’è più. Certo ogni tanto si fa sentire. Quando chiama, la mamma glielo passa al telefono. Lui le chiede come sta, e le dice di stare tranquilla, che tanto lui è in Marocco e ritorna la settimana prossima. Ogni volta la stessa storia, a casa però non ci torna mai. Soltanto l’ultima volta aveva detto qualcosa di diverso. Era il 12 luglio. “Tesoro, domani prendo l’aereo e vengo a casa, sei contenta?”. Quella notte però lo trovarono appeso a una corda, nel bagno della sezione Ddel centro di identificazione e espulsione (Cie) di Milano.

Perché M. non era in Marocco. Quella era soltanto una bugia messa in piedi per non spaventare sua figlia. Perché farla inutilmente soffrire dicendole che papà stava in gabbia? Tanto prima o poi l’avrebbero rilasciato dal Cie di via Corelli, visto che non avevano il suo passaporto e non lo potevano identificare. Si trattava solo di aspettare. I sei medi scadevano proprio il 12 luglio. Il giorno prima aveva già preparato le borse con le sue cose. Aveva addosso una strana allegria. Quando improvvisamente, lo convocarono per un’udienza davanti al giudice di pace. Il tutto durò pochi minuti. Convalidato. Altri due mesi di gabbia. Per lui e per il trans argentino. I primi due reclusi dei Cie di tutta Italia a cui veniva applicato il nuovo decreto leggi sui rimpatri, che prevede fino a 18 mesi di reclusione in attesa dell’espulsione.

Fu un pugno allo stomaco. Ma dopo pochi attimi ebbe il modo di reagire. Si mise a gridare tutta la rabbia che aveva in corpo, rifiutò di firmare la convalida e infine se ne tornò mesto in cella. Come glielo avrebbe spiegato adesso alla bambina? Con quali parole? M. non pensò ad altro tutta la sera. Per fortuna quando lo videro andare in bagno, i suoi compagni di cella intervennero in tempo, prima che morisse impiccato.

Sarebbe stata l’amara fine di un padre di famiglia, da 15 anni in Italia. Proprio così, perché M. in Italia ci vive dal 1996. Ormai bresciano di adozione, i documenti li ha fatti con la sanatoria del 1998 e nel 2004 si è fatto raggiungere dalla moglie, che aveva sposato in Marocco l’anno prima. La bambina è arrivata nel 2006. Subito dopo, lui è stato arrestato. Una vecchia storia di spaccio, una ragazzata commessa prima ancora di sposarsi, che a distanza di anni gli ha rovinato la vita.

Quattro anni di pena. Due anni e mezzo in carcere e uno e mezzo ai domiciliari, accanto alla famiglia. A fine pena, il 15 gennaio scorso, I carabinieri l’hanno convocato in caserma e da lì l’hanno portato in questura, dove lo aspettava una volante per il Cie di Milano. È stato l’ultimo giorno che ha visto sua figlia.

Da allora sono passati più di sei lunghissimi mesi. E ancora non è niente. Perché se passa la nuova legge sui rimpatri, già approvata alla Camera e in discussione al Senato, a M. resteranno ancora dodici mesi da scontare dietro le sbarre. Se lo rimpatriassero, non sarebbe la prima volta che un’espulsione separa un padre italomarocchino dai propri bambini e dalla propria donna.

Penso a Raffa, cresciuto a Torino e da Torino espulso in Marocco nell’ottobre del 2009 con la moglie e una bimba di otto mesi in Italia. E penso a Kabbour, anche lui rimpatriato in Marocco, nel marzo del 2011, pur avendo in Italia tre generazioni della propria famiglia: genitori, sorelle, moglie e bambini.

Ma forse M. non sarà espulso e tra un anno tornerà a Brescia, senza documenti ma di nuovo con la sua famiglia. E allora chissà se la piccolina lo riconoscerà. Perché dai Cie escono uomini ridotti a stracci, piegati da mesi di detenzione, quotidiane umiliazioni e forsennate terapie di psicofarmaci.

Fonte: http://fortresseurope.blogspot.com/2011/07/papa-si-e-impiccato-al-cie-di-milano.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+FortressEurope+%28Fortress+Europe%29

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