«Ci stanno uccidendo con coltelli e machete»: questo l’sms ricevuto ieri da Don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia. Una richiesta d’aiuto disperata che svela un retroscena delle rivolte in Libia: la sorte di tutti quei profughi somali, eritrei, etiopi e in generale africani presenti sul territorio libico, molti dei quali respinti a suo tempo dall’Italia grazie al Trattato di Amicizia stipulato tra il premier Silvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi.
Zerai, che da mesi segue le vicende dei profughi in fuga dal Corno d’Africa, sottolinea la drammatica situazione in cui queste persone, bloccate in Libia, si sono venute a trovare all’indomani dell’esplosione delle rivolte. Gheddafi infatti pare aver arruolato negli ultimi giorni mercenari dal Ciad e dall’Uganda per reprimere le ribellioni di piazza che intendono dare la ‘spallata decisiva’ al regime: decisione che avrebbe portato i manifestanti libici, nel clima di violenza collettiva in atto in queste ore, a temere qualunque persona di colore scambiandola per un mercenario al soldo del regime. «Queste persone – dice Zerai – continuano a chiedere aiuto». Secondo quanto comunicato dai profughi che sono in contatto con lui, infatti, i libici in rivolta vanno a cercarli nelle case e negli appartamenti e li attaccano con machete e coltelli perché, in quanto africani, li considerano soldati prezzolati da Gheddafi e quindi nemici pericolosi.
Altri invece si trovano ancora nelle carceri di varie città libiche come Misurata che in queste ultime ore sono state bombardate per reprimere il dissenso: nessuna possibilità di fuga o di liberazione per queste persone, sebbene la loro colpa sia difficilmente identificabile poiché sono state incarcerate a seguito dei respingimenti italiani che hanno fatto di loro dei clandestini sul territorio libico anziché degli aventi diritto all’asilo politico in Italia in quanto rifugiati.
«L’Italia – afferma Zerai – potrebbe offrire loro spazi nel piano di evacuazione già in atto. Chiediamo che venga valutata la possibilità di salvare la vita di queste persone, magari anche dando loro un rifugio provvisorio nell’Ambasciata Italiana».
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