Non c’è redenzione — non nel senso in
cui la intendono i predicatori gonfi di grazia o gli ingenui venditori di
speranze in saldo. Non c’è redenzione, e la speranza, quel piccolo idolo mal
cesellato, rischia di essere più crudele del peccato che vorrebbe emendare.
Ogni accadimento — ogni tremolio dell’aria, ogni capriccio della sorte —
risponde a una necessità muta, a un ordine oscuro che non tollera scorciatoie,
né pietà. E la speranza, quella civetta dagli occhi spalancati, porta con sé un
veleno sottile: il rischio — anzi, la certezza eventuale — del fallimento.
Sperare è un gesto tragico, un esporsi con le mani nude al taglio della
possibilità.
L’uomo, povero animale narrativo, è
inchiodato a questa dialettica velenosa: deve sperare, perché senza speranza si
spegne come una candela umida; ma teme ciò che spera, perché ogni desiderio che
nasce porta già in grembo la sua delusione. Come una madre infetta che
trasmette la malattia al figlio prima ancora del primo vagito.
E quando, per una grazia del cielo o
un malinteso degli dei, la speranza si realizza — quando il desiderio si fa
carne, e il sogno si concretizza in un mobile dell’IKEA già montato — l’uomo si
scopre incapace di stare. Incapace di restare. Incapace, perfino, di godere.
Non sa starsene lì, nel salotto della soddisfazione, a sorseggiare la sua
conquista come un tè tiepido. Deve ripartire. Deve ricominciare. Deve
inciampare ancora, altrimenti scompare.
E così si lamenta. Oh, come si
lamenta. Ma spesso, se solo sapesse osservare con occhi più crudeli,
scoprirebbe che gli ostacoli che maledice sono quelli che lui stesso si è
meticolosamente costruito. Perché solo superando qualcosa — anche un problema
finto, un’angoscia prefabbricata — riesce a sentirsi vivo. C’è in lui una
pulsione perversa, un meccanismo tanto raffinato quanto ridicolo: anela alla
pace e poi, come un bambino annoiato dai suoi stessi giocattoli, la getta via
appena la ottiene.
E allora il gioco si ripete, come un
valzer ossessivo: desiderio, tensione, conquista, nausea. E di nuovo desiderio.
Come se non potesse fare altro, come se l’alternativa — la stasi — fosse
peggiore della morte stessa.
Da tutto questo nasce un dilemma,
anzi — per essere più fedeli alla vertigine dell’esperienza umana — una
spirale. Perché se è vero che l’uomo è costruito così, prigioniero di una
macchina che lui stesso alimenta con l’olio delle sue ambizioni e la polvere
delle sue frustrazioni, allora la domanda più atroce è anche la più infantile:
come se ne esce?
E la risposta — se si è abbastanza
onesti da guardarla in faccia — è che non se ne esce. Perché perfino l’idea di
“uscire” è parte del gioco. Anche il pensiero che cerca la soluzione è già,
esso stesso, una nuova trappola, un’altra declinazione della stessa fame che
divora tutto ciò che ama.
Perfino il tentativo di capire il
paradosso — di elevarsi al di sopra del meccanismo — è solo un altro gradino
della scala. Si pensa di essere “oltre”, ma si è ancora, ostinatamente, dentro.
Sempre. Fino all’ultimo sospiro. E forse anche dopo.
E allora? Forse — dico forse — una
via non di salvezza, ma di sopportazione estetica, è quella di smettere di
lottare contro il paradosso e cominciare a danzarci dentro. Di trovare una
forma di equilibrio tra la pace e la guerra, tra il bisogno di fermarsi e
quello di correre.
Forse la vera pace non è la fine
della tensione, ma la sua accettazione consapevole. Una pace non come assenza
di battaglia, ma come arte del combattimento. Non l’inerzia del lago, ma
l’euforia del mare aperto, con il volto tagliato dal vento e le mani strette al
timone.
Nietzsche, quel funambolo del
pensiero, lo aveva intuito con chiarezza: la “volontà di potenza” non è
desiderio di dominio, ma bisogno di metamorfosi. Non è voler avere, ma voler
diventare. Non è una casa, ma un ponte.
E proprio ai filosofi, ai suoi
compagni di labirinto, lanciava l’avvertimento più spietato: guardatevi dal
momento in cui troverete una verità, perché la stessa forza che vi ha portati a
cercarla vi spingerà a distruggerla. Non perché sia falsa, ma perché è
diventata noiosa. Perché è diventata ferma.
Anche Dostoevskij, quel cartografo
dell’abisso, sapeva che l’uomo non è fatto per la perfezione. Nell’Uomo del
sottosuolo lo grida con un ghigno disperato: date all’uomo il palazzo perfetto,
dategli simmetria, armonia, bellezza… e lui, col primo bastone che trova, lo
ridurrà in polvere. Perché la perfezione è una trappola dorata, e lui
preferisce l’inferno aperto all’Eden chiuso a chiave.
L’uomo vuole sporcarsi le mani. Vuole
sentire il peso della rovina e il brivido del ricominciare. Vuole la libertà,
non il compimento.
E così, con le mani piene di macerie
e gli occhi pieni di nuove visioni, l’uomo ricomincia — ancora, e ancora, e
ancora — non perché non abbia imparato, ma perché non vuole imparare. Perché
imparare, in fondo, significherebbe smettere di cercare. E per lui, non c’è
castigo peggiore.
Forse, sì — ma con che riluttanza lo
ammettiamo! — è proprio questa l’unica via di fuga ancora agibile: non una
liberazione trionfale, né un epilogo da teatro classico, bensì una tregua
sottile, un armistizio sottovoce tra ciò che brucia e ciò che implora. Non la
pace che si esaurisce in sé, statica, marmorea, simile a quelle statue che
tanto amano i manuali morali; ma la pace consapevole, cioè quella che ha visto
la guerra da vicino, e sa che l’uomo non si salva dal conflitto — perché è il
conflitto.
Eppure, ahimè, quanto ci rattrista
questa consapevolezza. Siamo ancora — e forse irrimediabilmente — innamorati di
un’idea di pace che non esiste: un silenzio perlaceo, una immobilità pastorale,
una quiete che si stende come lino fresco su un letto disfatto. L’abbiamo
ereditata come si eredita un pettine d’avorio o una mappa ingiallita dell’Eden:
promessa di un riposo senza sforzo, di una felicità priva di frizione.
Ma veniamo costruiti, nel fondo più
segreto delle nostre ossa, per desiderare ciò che ci agita.
Non siamo gli inventori di questa
tensione interiore: ne siamo i discendenti. Freud — quell’arcinoto cartografo
dell’inconscio — ne aveva già tracciato le rotte, tra l’istinto di costruire e
quello di dissolvere. Eros, l’architetto delle unioni, colui che tende ponti
tra isole emotive. Thanatos, il sabbiatore silenzioso, che cancella ogni cosa
con lo stesso gesto con cui la neve copre i nomi sulle lapidi.
Due forze, due voci, due abissi.
Eppure entrambe aspirano a qualcosa. Entrambe pretendono — come bambini
capricciosi — di essere ascoltate. Ma le loro mete non coincidono: l’una vuole
edificare, l’altra sognare la rovina.
E allora, ecco l’intuizione che
fiorisce come un’orchidea in una stanza buia: forse non sono nemici. Forse,
come certi amanti disfunzionali, si cercano proprio attraverso lo scontro.
Thanatos sgretola, sì — ma sgretola per fare spazio. Eros costruisce, ma solo
sulle rovine.
La morte, dunque, non come fine, ma
come apertura. Come condizione perché qualcosa — qualunque cosa — possa ancora
nascere. Come dire: senza rovina, l’amore sarebbe un imbianchino senza pareti.
Senza catastrofe, il desiderio vagherebbe come un cieco in una stanza
illuminata.
Pensateci: cosa potrebbe mai
edificare Eros, se ogni cosa fosse già perfetta, levigata, compiuta? Cosa
resterebbe da desiderare, se non ci fossero più crepe da riempire con la nostra
febbre?
E allora sì, perfino la bellezza —
quella creatura fragile e presuntuosa — ha bisogno di un nemico. Un nemico da
abbracciare. Una crisi da attraversare. Perché l’amore che non conosce il
crollo è solo un soprammobile lucente, un idillio impolverato.
Eros, per restare vivo, ha bisogno di
essere sfidato. Ha bisogno di precipizi, di strappi, di cose che mancano. Di
un’ombra che si allunga sul tappeto ogni volta che il sole si avvicina troppo.