TURCHIA – Una, cento, mille Idomeni. Le immagini del campo profughi
greco al confine con la Macedonia colpiscono e feriscono. La bambina
sotto un sottile telo di plastica, il suo rifugio mentre piove, che
esclama: “Questa è la mia tenda” e a chi le chiede che cosa desidera,
lei risponde, “una stufa per riscaldarmi”. Oppure il cordone umano
aggrappato a una fune per attraversare le acque agitate del fiume che
delimita il confine, mentre un uomo, barcollante, tiene in braccio il
figlioletto. O il neonato venuto alla luce e pulito sotto la pioggia,
appena fuori la tenda. Ma anche il fango e l’acqua che entrano nelle
tende, sporche e fradice. Sono immagini che troviamo solo a Idomeni? No,
purtroppo. Nel mio “viaggio”, per documentare la vita nei campi
profughi al confine con la Siria, ho trovato di peggio. A Idomeni si
spera ancora, lì a Reyhanli, in Turchia, ma gli esempi sono migliaia, la
speranza è morta. Nei luridi campi, spesso ridotti a dei porcili, fra i
rifugiati pervade la rassegnazione. I profughi sono scappati dalle
bombe e dalla morte, ma non dobbiamo nasconderci: vi sono profughi più
fortunati e meno fortunati. Profughi di serie A e di serie Z. L’Europa
ha l’obbligo di ricordarsi di loro, di tutti.
L’emergenza dei
profughi siriani non si chiama, infatti, solo Grecia. Nei campi dei
rifugiati in Turchia, sorti spontaneamente lungo tutto il confine con la
Siria, si rischia l’emergenza sanitaria. Sono sorti ovunque, ve ne sono
migliaia e migliaia. Non grandi insediamenti, al massimo una ventina di
tende. L’80 per cento dei profughi in Turchia vive lì, in questi
insediamenti spontanei, che sono un insulto alla dignità umana. Le
condizioni igieniche e sanitarie sono quasi inesistenti, i bambini si
stanno ammalando. Pochi hanno le scarpe e nel freddo tosse, bronchiti e
polmoniti sono all’ordine del giorno. Le mani dei ragazzini si spellano e
si vedono profondi tagli. Anche sul viso compaiono i segni di gravi
dermatiti.
Emergenza sanitaria?
Difficili vedere
sanitari da quelle parti, per servizi igienici c’è una buca per l’intero
campo, dietro a un telo. Nelle tende, quando va bene, si dorme sui
tappeti, unica barriera con la terra, ma l’umidità è ovunque, filtra dai
lati e da sopra. Difficile anche pulire in queste condizioni. Si mangia
seduti dove capita. Non tutti i campi hanno l’acqua potabile. Il cibo
arriva abbastanza regolarmente grazie alle organizzazione di
solidarietà, mentre i vestiti scarseggiano. Non ci sono cassonetti per
le immondizie e senti il fetore a qualche decina di metri. Le discariche
si trovano all’estremo margine dei campi e nessuno raccoglie i rifiuti.
Prima del ritorno del freddo, una paio di giorni fa, c’è stato un caldo
fuori stagione e le tende sono state invase dalle mosche, anche attorno
alla pentola della pasta nella tenda di Adet. Lui è qui da un anno, in
uno dei campi più disastrati. Ha otto figli ed è scappato da un paesino
alla periferia di Aleppo, dopo una serie di bombardamenti.
Profughi meno sfortunati.
Altri sono più fortunati e si sono sistemati nei garage, se hanno soldi
per pagare l’affitto. C’è chi vive in queste condizione dall’inizio
della guerra in Siria, dal 2011 quando ebbe inizio la “Primavera araba”.
Da allora gli scontri fra il regime di Baššār al-Asad e l’opposizione,
divisa in mille rivoli, hanno subito una terribile recrudescenza. Souzan
è una donna corpulenta, ha avuto cinque figli morti sotto i
bombardamenti, il marito è in Siria, imbraccia un kalashnikov contro il
regime di Assad. È in una tenda dal 2013. Molte storie si assomigliano,
quella di Ibrahim e la sua numerosa famiglia, di Fadi e della giovane
moglie che dimostra il doppio dei suoi anni per le precarie condizioni
di vita. Tutti sfuggiti alle bombe. Nei campi ci sono pochissimi uomini,
in maggioranza sono donne e bambini. Le donne cercano di far fronte in
qualche modo alla necessità di pulizia. Fanno bollire l’acqua in un
catino all’aperto per lavare i cappelli dei ragazzini ed evitare i
pidocchi. Ma è inutile. Di questo passo sarà presto emergenza sanitaria,
soprattutto con il caldo le mosche ronzeranno in questi accampamenti di
fortuna.
Gli orfanotrofi crescono come funghi.
Ora
Reyhanli è la città degli orfani, ultimo lembo di terra della Turchia al
confine sud con la Siria, vicino alla città di Antochia, ora Antakia.
Qui la dimensione del fenomeno migratorio è da capogiro. Reyhanli
contava, prima del conflitto, 50mila abitanti, ora sono 150mila. Le case
sono triplicate, sono nati nuovi ospedali, anche privati. La guerra è
miseria e business da capogiro con profitti alle stelle. Preoccupante è
la situazione degli orfani. In poco tempo sono sorti in città dieci
orfanotrofi, circa migliaia ora sono seguiti e protetti. Si pensa, però,
che ve ne siamo diverse centinaia che vagano per le strade e le
campagne, soli e abbandonati. Nella sola provincia di Hatay si contano
circa 10mila orfani. Nessuno più esclude che alcuni siano serviti come
cavie umane per il trapianto di organi o preda degli orchi pedofili. Chi
potrebbe cercarli? Nessuno! I racconti dei bambini sono orrori stampati
sul viso. “Parlano”, riferisce Mayada Abdi, direttrice
dell’orfanotrofio Bayti, “oltre che dei bombardamenti, anche dei
poliziotti di Assad, che venivano ad arrestare i genitori davanti ai
loro occhi e li riportavano sanguinanti o morti e ordinavano ai bambini
di rimanere nella stanza con i padri morenti e impedivano loro di
prestare aiuto. Oppure bruciavano il padre sotto i loro occhi o
violentavano le madri davanti a loro. Ragazzini che vedevano i padri
rantolare prima di esalare l’ultimo respiro”. Nelle colonne in fuga i
ragazzini erano il bersaglio preferito dei cecchini. Si colpivano agli
arti per gambizzarli oppure direttamente alla testa per ucciderli. C’era
anche la variante delle bombe a grappolo, proibite ma ampiamente
utilizzate, tirata proprio in mezzo alle colonne umane per compiere una
strage. Perché colpire proprio loro? Perché non crescano con sentimenti
antiregime”. Si può guarire da traumi così profondi? “Il trauma è già
immagazzinato nel cervello, dice la direttrice, “il nostro compito è di
rafforzarli e allontanarli dalla vendetta e da reazioni sbagliate. Non è
facile quando si vivono traumi così forti e devastanti. Qualche
risultato, però, si vede. All’inizio i disegni erano il marchio del
trauma, dopo 8 mesi colorano fiori e alberi. Mi ha colpito il disegno di
una bambina di 5 anni. Ha raffigurato un gattino con le lacrime agli
occhi. Ho chiesto il significato e lei mi ha detto che il gattino era
stato colpito agli occhi e stava sanguinando. Allora le ho spiegato che
insieme saremo andati dal dottore per farlo curare”.
La ragazzina che viveva sotto le bombe.
Ruba sogna l’Italia, sogna di diventare medico chirurgo: per tornare in
Siria e aiutare il suo popolo. Ruba ha appena compiuto 15 anni ed è una
profuga siriana da quattro. Vive in un orfanotrofio, a Reyhanli. Ha
deciso di diventare medico, ma lei corregge, “medico chirurgo”, un
terribile giorno di quattro anni fa. Quella mattina era a scuola, in un
villaggio chiamato Zamalka, periferia di Damasco, in Siria, con i suoi
compagni, seduta al suo banco, quando, improvvisamente, dal cielo
cominciarono i bombardamenti, mentre il ronzio degli aerei si faceva
assordante. Non era la prima volta che accadeva, ma questa volta non una
ma più bombe centrarono la scuola. Ruba ricorda come fosse ieri quegli
interminabili momenti di terrore, “mi sono alzata e ho visto vicino a me
alcuni compagni morti, altri avevano subito gravi mutilazioni e tanto
sangue. Non c’era un solo medico che ci aiutasse, che curasse i feriti,
non c’era un chirurgo che operasse i miei compagni. Ecco perché voglio
diventare chirurgo”. E solo l’inizio dell’odissea che dovrà sopportare:
Prima si trasferisce dal nonno, a Kfarbou, alle porte di Hama. La
ragazza è orfana di madre da quando aveva cinque anni. Intanto il padre
decide di tornare nella casa vicino a Damasco assieme al figlio
maggiore, che frequentava l’università. Ma una sera, mentre era in
giardino con un suo amico, due uomini con il viso coperto cominciano a
sparare. Il padre Mohammed viene colpito prima alle spalle e poi un
colpo lo raggiunge alla testa, la morte fu istantanea. Era impegnato con
il Fronte di liberazione siriano, nemico giurato di Baššār al-Asad,
presidente siriano. “Abbiamo saputo della morte di mio padre da mio
fratello e da una zia, prima ci hanno detto che era ferito gravemente,
poi che era morto. Volevamo seppellirlo a Kfarbou, sua città natale, ma
il regime lo ha impedito ed è sepolto lì, alla periferia di Damasco. “Lo
sogno, ricordo le sue carezze, quando giocavamo insieme. Mi coccolava
molto, gli volevo molto bene. Mi manca!” Poi sono cominciati i
bombardamenti anche a Hama, già rasa al suo suolo nel 1982, dove
morirono quasi 40mila persone. Anche il paesino di Ruba subisce
l’assedio. “Siamo di nuovo scappati”. La fuga è a piedi, chilometri e
chilometri, per arrivare a un piccolo paesino, pensavano di essere in
salvo, ma la speranza dura poco. E ricomincia il cammino, questa volta
verso il campo profughi di Atma, a un soffio dalla Turchia. È una
sterminata tendopoli, dove vi sono, ancora oggi con i confini siriani
sigillati, più di 10mila persone. Si tira avanti con difficoltà, cibo e
medicinali scarseggiano ed è come essere in gabbia. Ruba e il nonno
riescono a scappare in Turchia. Quasi quattro anni fa arrivarono a
Reyhanli. Vivono in un garage, affittato con i pochi soldi rimasti. Ruba
ricorda ancora quel funesto locale, dormire su un tappeto steso sul
freddo cemento, cucinare per terra. Poi, un anno dopo, l’orfanotrofio.
Per Ruba l’orfanotrofio è il primo briciolo di speranza dopo molti
anni, l’unico e forse l’ultimo, visto che è sola, e una associazione di
beneficenza italiana cerca di portarla nel nostro Paese e farla
studiare. Porta due orecchini, regalo di suo padre: non se li toglie
mai. “Sogno spesso una collina fiorita e verdi prati”, è il suo sogno di
pace.
Il ragazzino a cui volevano imputare la gamba.
Una bomba a grappolo ha quasi spappolato la gamba del piccolo Amed, 11
anni, orfano di padre, morto sotto le bombe. I medici in Siria
disperavano dal salvargliela, ma la madre si è opposta all’amputazione
ed è stata una corsa contro il tempo verso gli ospedali turchi. Il 20
febbraio è uscito dall’ospedale sulle sue gambe, grazie anche al
sostegno di Syrian Children Relief. Ma vi sono moltissime altre ong
italiane che stanno operando nei campi e fra i profughi.
Una generazione senza istruzione.
I siriani sono persone istruite. Avevano le migliori università, un
livello eccellente di scolarizzazione. Tuttavia, una generazione rischia
di non sapere che cosa sia una scuola. I ragazzini siriani nei campi
profughi in Turchia non vanno a scuola da molti anni, troppi. Per loro
non si sono aperte le porte delle scuole turche e non si è pensato a
programmi scolastici. Una generazione che rischia di crescere senza
istruzione e di vedersi bruciare il futuro.
Reyhanli e il terrorismo.
Nel maggio 2013 fa la città fu colpita da un attentato terroristico,
morirono quasi 50 persone, altre 150 furono gravemente ferite. Ora la
sorveglianza è strettissima, anche una foto può costarti una
perquisizione o un fermo di polizia. Come ci è successo. Non serve che
tu faccia qualcosa di strano. La paura di attentati, dopo Ankara, è
molto forte, e i giornalisti non sono proprio graditi. Ma i profughi, i
dimenticati nelle lerci tende, continuano a esistere e a sopravvivere.
Se non si vuole rischiare un dramma umano ancora peggiore, la speranza è
che ora l’Europa si muova in fretta anche fra i profughi siriani in
Turchia, controllando come saranno spesi i finanziamenti. I confini
dell’Europa non si fermano su qualche isola greca.
Paolo Tessadri
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