da Tiziana Barillà (Note) Lunedì 13 maggio 2013 alle ore 16.48
Un mistero irrisolto. Il decesso di Marcello Lonzi nel carcere di Livorno, dieci anni fa. Caso archiviato per morte naturale, ma la madre chiede verità. E un processo. In questi giorni sarà presentata la domanda per riaprire le indagini
Caso chiuso. Archiviato. Marcello Lonzi, 28 anni, è morto per un
collasso cardiaco l’11 luglio di dieci anni fa nel carcere Le Sughere di
Livorno. Era finito dentro con l’accusa di tentato furto, condannato a
nove mesi, ne aveva scontati quasi la metà. «Si può morire d’infarto con
la mandibola fratturata, due buchi in testa, il polso sinistro rotto,
due denti spaccati, un’escoriazione a V, otto costole rotte?», si chiede
la madre di Marcello, Maria Ciuffi. Da quel giorno non ha mai smesso di
chiedere la verità sulla morte del figlio.
Dal 2002 a oggi sono stati 1.036 i decessi all’interno degli istituti
penitenziari italiani. Mille morti in dieci anni: metà suicidi, l’altra
metà per malattia o cause “da accertare”, con indagini giudiziarie
ancora in corso. Duecento i casi non risolti. Ogni volta è una vita
spezzata, venti volte su cento è l’inizio di una guerra per la verità.
Come per Aldrovandi, Cucchi, Uva, Ferrulli. Ma anche come per Marcello
Lonzi, che un processo non lo ha ancora avuto. «Combatto dal 2003 e non
sono mai riuscita ad arrivare in aula. Basta guardare le foto di mio
figlio e poi chiedersi se sia morto per infarto», racconta Maria Ciuffi.
Quelle foto Maria le ha rese pubbliche più volte, le è stato anche
chiuso l’account facebook per la violenza di quelle immagini.
Incongruenze, silenzi, fretta di archiviare. Sin dal primo momento, come
ci racconta Maria: «Ho saputo della sua morte solo il giorno dopo. Non
mi hanno avvisata né i carabinieri, né la polizia, ma una zia di mio
figlio. Ero appena tornata da lavoro, mi stavo per cambiare, quando
sento suonare alla porta e lei mi dice: Marcellino è morto. Sono corsa
al carcere dove mi hanno tenuta più di un’ora fuori, al sole. Le guardie
erano al cancello, mi guardavano ma non mi dicevano niente», prosegue.
«Poi ho scoperto che mentre io aspettavo davanti al carcere,
all’obitorio del cimitero di Livorno gli stavano facendo l’autopsia. La
notizia era già sui giornali: Il Tirreno riportava “morto d’infarto”, La
Nazione che si era suicidato. Li ho chiamati entrambi ed entrambi mi
hanno detto che era stata la direzione del carcere a dir loro così».
Sono muri alti quelli degli istituti penitenziari. È difficile
guardarci dentro. Come difficile è riuscire a sostenere i carichi
dispendiosi della giustizia. «Quello che ho potuto vendere l’ho venduto,
anche l’anima a momenti. Combatto da sola», dice Maria. «Il padre di
mio figlio si è fermato, perché non può credere che le guardie lo
abbiano picchiato». Al suo fianco da settembre c’è l’avvocato Erminia
Donnarumma. Insieme in questi giorni stanno provvedendo a presentare
nuove istanze alle autorità competenti. Ma il legale preferisce non
scendere nei dettagli «per non compromettere questa fase così delicata»,
dice. «Speriano che attraverso le indagini delle autorità si possa
capire cosa sia davvero successo. Perché è chiaro che non è andata come
dicono».
Terzo tentativo. Già due volte la signora Ciuffi ci aveva provato,
come conferma l’avvocato Donnarumma: «Ci sono state varie istanze e
varie richieste con l’avvocato che mi ha preceduto. La signora Ciuffi ha
addirittura fatto un ricorso alla Corte dei diritti dell’uomo di
Strasburgo, ma è stato respinto come irricevibile», spiega Donnarumma.
In particolare, c’è stata una prima autopsia nell’immediatezza
dell’accaduto, poi una riesumazione e una nuova autopsia. E da
quest’ultima sono emersi nuovi elementi assenti nella prima relazione
del tribunale. «Per esempio delle strane tracce di vernice in una delle
ferite al volto che arriva fino all’osso e lo segna», dice il legale.
«Queste non sono state campionate. Sono state fotografate dal consulente
di parte ma non sono state nemmeno prese in considerazione nella
relazione del perito. Quindi hanno chiuso il caso di nuovo». Un caso
complesso che si è trasformato in un’enorme mole di documenti: «Ci sono
voluti mesi per rileggere tutta la documentazione. Per mettere in fila e
analizzare i fatti. E ne sono emerse delle incongruenze secondo me
spaventose», continua Donnarumma. «Ci sono anche diverse testimonianze
che non collimano».
Maria Ciuffi in questi anni ha ascoltato i compagni di cella, gli
altri detenuti. Ha fatto ciò che il «pm avrebbe dovuto fare», chiosa. E
ci racconta un episodio: «Mentre facevo lo sciopero della fame fuori dal
carcere incontrai tre detenuti che mi raccontarono delle cose, e io
feci in modo che il magistrato li sentisse. Uno di loro venne
interrogato davanti a me, per la prima volta», prosegue, e sintetizza
così quell’interrogatorio: «Così ho saputo che Marcello alla mattina “si
era preso” verbalmente con un appuntato e che alle tre e mezzo del
pomeriggio li chiusero nelle celle. Si sentì correre su e giù, e voci
sconosciute. Quando il magistrato gli chiese dettagli sulle voci
sconosciute, lui rispose: non quelle delle guardie di tutti i giorni. Ma
non si vedeva niente. Si sa che è successo qualcosa, ma non si sa cosa.
Solo la mattina dopo ci dicono che Lonzi è morto. E lì ci sono stati
anche un po’ di tafferugli». Quella testimonianza non è che una piccola
parte della lunga “indagine privata” che Maria Ciuffi ha condotto in
questi dieci anni. E che continua ancora, come dice l’avvocato: «Io e la
signora Ciuffi ci siamo occupate di contattare persone che erano
detenute nello stesso carcere. Abbiamo cercato di ricomporre tutta la
vicenda. Noi da sole, senza i mezzi di cui può disporre l’autorità. Lo
abbiamo fatto in proprio. E adesso tutto ciò è agli atti. Quello che
abbiamo trovato conferma quanto sospettavamo».
«Per lo Stato è come se Marcello non fosse mai esistito», dice Maria.
E il suo avvocato rincara: «Hanno cercato di ostacolarla in ogni modo. E
non si capisce il perché. È la madre di un ragazzo che è morto e
pretende chiarezza. Che le si spieghi quantomeno cosa è successo. Non
può essere liquidato tutto come una morte naturale. Io continuerò a
essere al suo fianco, finché lei vorrà. Nonostante i problemi che
abbiamo affrontato e quelli che sicuramente verranno».
di Tiziana Barillà
left n.17 del 4 maggio 2013
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