Fonte: Il Pensiero Attuazionista
Quello che mi preme sottolineare, in questo ragionamento, è il ruolo che ha avuto la sinistra nell’affossare definitivamente la centralità del conflitto tra capitale e lavoro e, specificamente, i partiti comunisti che si sono succeduti dopo lo scioglimento del PCI, e allo stesso tempo, oggi, voler riaffermare questa centralità come se nel frattempo non fosse avvenuto nulla.
La prima incapacità risiede nell’aver accettato di delegare a un potere terzo il comando politico sull’economia e di non aver messo al centro la questione nazionale come interesse generale dei lavoratori contro ogni forma di disgregazione sociale e territoriale.
Comando politico dell’economia significa avere la possibilità per uno stato di prendere decisioni in merito allo stato sociale, ovvero difendere la propria forma economica da ingerenze esterne, che in soldoni significa non permettere, ad esempio alla Fiat, di ricattare i lavoratori e di fare gli interessi di uno potenza economica imperialista come gli USA.
Ma significa pure non assumere come una calamità naturale la crisi economica e meno che mai la crisi economica come crisi del capitalismo, ma di fornire ai lavoratori una lettura onesta e veritiera, ovvero che la crisi economica è uno specifico progetto politico per il riassetto dello stato sociale sul modello culturale e politico della potenza di turno, che si forma a livello di lotta politica tra stati e che ha ricadute e ripercussioni nazionali.
Quando si dice che l’economia, ovvero i poteri finanziari, la fanno da padroni sulla politica si dice una cosa giusta, ma non spiegandola si finisce per affermare una cosa sbagliata.
Nel nostro paese, ad esempio, il potere politico accetta determinate scelte politiche esterne che possono anche non coincidere con gli interessi dei lavoratori, tali scelte politiche determinano a loro volta scelte economiche. Allora, sono le scelte politiche ad avere ricadute economiche e non viceversa. Per determinare una data scelta economica bisogna avere una certa indipendenza politica, cosa che noi non abbiamo in quanto soggetti a poteri e forze straniere.
Come possiamo pensare di arginare lo smantellamento dello stato sociale, i continui e sempre più pervasivi attacchi contro i lavoratori, la scuola, l’università, la sanità, in una parola lo stato sociale, se non recuperiamo il ruolo politico determinante per le nostre scelte interne?
Sono anni che ci vengono raccontate le crisi delle forme del lavoro, dell’organizzazione dell’impresa, delle politiche economiche di adeguamento all’Unione Europea come fossero tutte forme normali del processo di globalizzazione. Vogliamo sostituire una volta per tutte la parola globalizzazione con capitalismo imperialista?
Il lavoro ha assunto sempre più forme e caratteri nuovi negli attuali processi di ristrutturazione, e ne assumerà sempre di nuovi e pervasivi, perché il comando sul processo e sul ciclo produttivo ha assunto anch’esso forme nuove. Allora bisogna convincerci che la crisi politico-statale si riversa inevitabilmente nella crisi economico-sociale e nella sua composizione sociale.
I vari fenomeni di aggregazioni transitorie, sporadiche e di fortuna per resistere agli attacchi non solo non sono contrastati ma addirittura favoriti. Più si frantumano gli interessi e più si formano due specifiche classi sociali: la classe per sé e la classe lasciata a se stessa. Entrambe a loro volta frantumate e dislocate socialmente e territorialmente. Si assumono forme locali territoriali di difesa come di aggregazioni sociali sempre più particolari. Ad un attacco a livello globale si cerca di rispondere a livello locale. In tutto questo la sinistra e i comunisti non hanno saputo rispondere se non con uno schema teorico che fa acqua da tutte le parti.
Se una forza di sinistra e comunista vuole veramente essere efficace, in questa fase storica, deve comprendere che una forza anticapitalista e antimperialista deve fare i conti con quello che c’è e non con quello che si vorrebbe che ci fosse. Al momento abbiamo la politicizzazione del mercato e la mercificazione dello stato.
In questo momento ci troviamo di fronte all’assenza del soggetto politico capace di incidere in maniera costruttiva sull’ordine presente delle cose e anche per questo i sindacati di base si trovano in condizioni di grave difficoltà. Difficoltà che sono tutte riconducibili a una mancanza di prospettiva politica.
Gli industriali hanno già preso accordi con il governo per trasferire all’estero tutta la loro produzione e stanno aspettando solo il momento propizio per realizzare l’operazione. E’ per questo che il disegno sociale, che si è già realizzato, sta assumendo la sua definitiva messa a punto che passa inevitabilmente per la riforma della scuola, dell’università e della pubblica amministrazione.
Ma su questo punto dobbiamo essere chiari. La chiusura delle fabbriche, il licenziamento dei lavoratori e il trasferimento all’estero delle fabbriche è avvenuto grazie alla complicità dei partiti di sinistra e dei sindacati di regime. E come hanno convinto gli operai a subire una tale mortificazione dei loro diritti e un simile ricatto? Con la parola magica della “crisi economica” ripetuta dalla sinistra e dai comunisti come fosse un concetto neutrale e non avesse invece una matrice politica, culturale e sociale ben definita.
Al ricatto di Marchionne, tutto nell’interesse degli USA, che vuole portare le medesime condizioni schiavistiche in Italia, vogliamo continuare a rispondere con le manifestazioni organizzate dalla CGIL? Oppure con la teoria del conflitto tra proletari e borghesi?
Affrontare il problema in maniera seria significa pensare ad un progetto politico capace di ridisegnare i confini entro cui la classe per sé possa finalmente incontrare la classe lasciata a se stessa.
Per questo è urgente disegnare il percorso politico che porti ad un Primo Maggio all’insegna della dignità contro ogni forma di pagliacciata. (Roberto Scorzoni)
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