sabato 30 ottobre 2010

Quanto vale un burundese?

Attorno agli ottomila euro, circa un decimo rispetto alla vita di un italiano. Proprio così: la sentenza che ha ridotto il risarcimento ai familiari di un lavoratore morto «perché era albanese» si basa su una tabella ufficiale del ministero. Che ha effetti agghiaccianti.
La notizia è di ieri: un giudice del tribunale di Torino ha deciso che per stabilire l’ammontare del risarcimento danni da corrispondere ai familiari di un morto sul lavoro occorre fare riferimento al reale valore del denaro nell’economia del paese ove costoro risiedono.
Nel caso di specie, poiché si trattava di un lavoratore albanese, il giudice ha ritenuto di utilizzare come parametro legale il coefficiente di conversione della parità di potere d’acquisto tra Italia e Albania contenuto nella tabella di cui al Decreto del Ministero del Lavoro del 12 maggio 2003, pari a 0,3983: posto pari a 72.300 euro il risarcimento che spetterebbe a ciascun genitore italiano di una persona morta sul lavoro, e tenuto conto che nella circostanza il giudice ha attribuito al lavoratore deceduto un concorso di colpa del 20%, il risarcimento dovuto ad ognuno dei suoi genitori è venuto fuori dal semplice calcolo che segue:
72.300 X 80% X 0,3983 = 23.038
oltre, naturalmente, agli interessi legali sull’importo dovuto, che hanno portato il risarcimento definitivo a circa 32.000 euro.
Bene, sono andato a ripescarmi la tabella a cui ha fatto riferimento il giudice nella sentenza, e ho provato a calcolare quanto sarebbe dovuto, utilizzando lo stesso criterio ed ipotizzando per comodità un concorso di colpa del danneggiato analogo a quello in esame, a ciascun genitore di un morto sul lavoro proveniente da altri paesi, per i quali il coefficiente di conversione è ancora più basso di quello relativo all’Albania.
Supponiamo, ad esempio, che si trattasse di un lavoratore dello Sri Lanka, paese per il quale il coefficiente di conversione è pari a 0,2501: in tal caso la somma dovuta a ciascuno dei suoi genitori, fatti salvi gli interessi legali, sarebbe stata pari a:
72.300 X 80% X 0,2501 = 14.466
Un po’ pochino rispetto a un lavoratore italiano, vero? Ma c’è di peggio. Se il lavoratore fosse stato dell’Uganda il coefficiente di conversione da utilizzare sarebbe stato pari a 0,1834, e quindi ancora più basso rispetto a quello del suo collega cingalese, con la conseguenza che se l’incidente mortale sul lavoro fosse capitato a lui a ciascuno dei suoi genitori sarebbe andata la somma di:
72.300 X 80% X 0,1834 = 10.608
Siamo, ne converrete, su un livello molto basso: eppure ci sono casi ancora peggiori. Se si fosse trattato di un lavoratore proveniente dal Burundi il tasso di conversione sarebbe stato appena 0,1342, con la conseguenza che il risarcimento dovuto a ciascuno dei suoi genitori in caso di morte sul lavoro sarebbe stato pari a:
72.300 X 80% X 0,1342 = 7.762
Capito? Secondo il criterio utilizzato a Torino la vita di un essere umano, per il solo fatto che costui proviene da un paese sfigato, può valere meno di ottomila euro, ammesso e non concesso -circostanza non scontata, visti i livelli della mortalità dei paesi in via di sviluppo- che gli sia rimasto almeno un genitore vivo.
Ditemi la verità: non provate anche voi un brivido gelido di terrore?

mercoledì 27 ottobre 2010

A (S)proposito del lodo Alfano

Esattamente un anno fa, quando per la prima volta il lodo Alfano venne bocciato per anticostituzionalità, scrissi una pagina sul mio blog...... sono andata a rileggerlo e, mi è piaciuto perchè DISSACRANTE e IRRIVERENTE .......... Lo propongo a voi con l'intento di farvi sorridere


(IO) LODO
( Io ) LODO ALFANO per essere stato tanto asino da farsi bocciare
( Io ) LODO ALFANO per essersi prestato a fare una pessima figura
( Io) LODO ALFANO per essersi meravigliato della sentenza
( Io) LODO ALFANO perché una ne ha fatta e una ne ha persa!
( Io) LODO ALFANO perché nel tentativo di lodar(Lo) lo ha imbrodato!!! Chi si loda si imbroda!!!
( Io) LODO ALFANO per aver accettato la poltrona di Guardasigilli credendo di dover stare a guardare qualcosa e ha dovuto guardare qualcuno!
( Io) LODO ALFANO perché passerà alla storia...... da dimenticare
( Io) LODO ALFANO perché ha un nome perfetto ( Angelino ) per fare il custode del SUO Presidente
( Io) LODO ALFANO perché insieme ai due colleghi Pecorella e Ghedini può cantare… e siamo rimasti in tre.. tre somari e tre briganti….
E dopo tutte queste laudi mattutine, che manco un monaco benedettino,
auguro a tutti una felice giornata

di Dora Benedetto Facebook

martedì 26 ottobre 2010

Il razzismo è nell'aria che respiriamo

Prima l’ha insultata, e poi, non soddisfatto, l’ha strattonata e presa a sberle. Non è il classico litigio tra due automobilisti per una precedenza non rispettata, e non riguarda due adulti.

Protagonisti della vicenda sono un uomo e una ragazzina di tredici anni. La colpa di quest’ultima sarebbe stata quella di non spostarsi velocemente per lasciar passare un suv. Il tutto è avvenuto fuori da una scuola media. Il gagliardo non si è mica accontentato di alzare le mani, ma ha inveito contro la studentessa con parole cariche di odio razziale. “Negra di m., torna al tuo paese, cosa sei venuta a fare qua, deficiente, scema, pezzo di m.” A tutt’oggi non si conoscono le generalità dell’uomo.

Un episodio simile era successo a Varese, su un autobus di linea, esattamente tre mesi fa. Allora i protagonisti furono un autista, fuori servizio, e una ragazza brasiliana.

A questi gesti non possiamo passarci sopra con due frasi di circostanza e qualche battuta. È necessario rifletterci e seriamente. Cosa ci sta succedendo? Cosa può generare simili comportamenti in un adulto, che se la prende con una ragazzina? Cosa potrà insegnare quest’uomo ai propri figli? Cosa significa “torna al tuo paese”? E potremmo aggiungere domande su domande.

Due aspetti della vicenda inquietano profondamente però. La prima riguarda la violenza con cui si è espresso l’uomo. Insulti inqualificabili confermano che “il razzismo è nell’aria come le polveri che respiriamo”. La frase dell’ultimo film di Veronesi riassume in modo perfetto quanto sta accadendo dentro le nostre comunità. Questo non significa che Varese è razzista. Certo però che, anche il nostro territorio non è affatto esente da comportamenti violenti come quello appena raccontato. Occorre perciò vigilare e non nasconderci o minimizzare. Qui, oltretutto, abbiamo a che fare con ragazzi giovani che resteranno segnati profondamente di fronte a un adulto che insulta e schiaffeggia una loro coetanea.

L’altro aspetto riguarda il senso del tempo. Viviamo di fretta, esasperati, stressati fino a livelli preoccupanti. Un ex assessore ai servizi educativi, alla fine del suo mandato, raccontava che il suo maggior rammarico era stato dover allungare il tempo dell’apertura delle scuole. Una posizione a prima vista contraddittoria, perché quella era la richiesta fatta dalle famiglie e dagli utenti. Lei spiegava però che, così facendo, si sceglieva sempre la via più semplice, più diretta, senza provare a rivedere i tempi della città e della nostra vita.

Facile da raccontare e da scrivere, ma una parte degli schiaffi dell’altro giorno, oltre che da un disprezzo dell’altro, in quanto diverso da me, sono figli di un mondo che va troppo di fretta. Non tutte le persone hanno le risorse per convivere serenamente con velocità dei cambiamenti che viviamo. La paura di perdere qualcosa poi fa il resto.

Per comprare un suv basta un buon conto in banca. Per tutto il resto non basta una carta di credito.
MARCO GIOVANNELLI marco@varesenews.it

sabato 23 ottobre 2010

Una lettera da Terzigno

Buona sera, sono il dott. Nicola Boccia e sono residente a Terzigno. Potrei scrivere centinaia di pagine su quanto sta accadendo a Terzigno, ma mi limito a descrivere i fatti più concreti che poi sono degenerati nell’intifada terzignese. Nel 2008 il sindaco di Terzigno Domenico Auricchio firmava l’apertura delle due discariche nel Parco Nazionale del Vesuvio, patrimonio Unesco. Dopo il ricorso da parte dell’Ente Parco contro la discarica, il governo con proprio decreto scavalcava la legge del parco e consentiva la definitiva apertura delle 2 discariche. Nel 2009 dopo la sfiducia al sindaco Auricchio si ritornava alle elezioni ed il sindaco giurava sulla statua di padre Pio che lui non aveva mai firmato il consenso all’apertura delle discariche e che se fosse risalito avrebbe fatto chiudere anche la discarica n.1. Salito nuovamente disattendeva, ovviamente tutte le promesse. Intanto l’agricoltura che ha reso famosa Terzigno nel mondo grazie al vino Lacryma Christi moriva e l’uva le nocciole e le albicocche del Vesuvio rimanevano invendute a causa della presenza della discarica, facendo perdere centinaia di posti lavoro. Inoltre il territorio è/era caratterizzato dalla presenza di decine di ristoranti aperti grazie alla buona tavola ed al favoloso panorama (il Vesuvio da un lato ed il golfo di Napoli dall’altro) che occupano/vano centinaia di persone ora ridotti in ginocchio a causa dei miasmi della discarica (ed ancora non apre la seconda discarica che è la più grande d’Europa). Detto ciò secondo voi quando una persona perde il posto a causa della discarica e deve vedere i propri familiari ammalarsi di cancro, secondo voi che alternativa ha? Ovvio, scatena l’inferno. Tale inferno non è niente se arriveranno i militari ad aprire la seconda discarica, perchè i più facinorosi impugneranno le armi ed allora, purtroppo, ci saranno molti morti.”Nicola Boccia

domenica 17 ottobre 2010

Il film sugli immigrati via da Treviso. Gobbo: troppo traffico, Bettin: censura

Il set trasloca a Bassano, i leghisti: «Anche qui non lo vogliamo» di Massimiliano Cortivo

TREVISO—«Cose dell’altro mondo ». E’ il titolo del film che da lunedì avrebbe dovuto sbarcare a Treviso. Ma è anche il commento circolato nei corridoi della casa di produzione Rodeo Drive. Che si è vista, di fatto, negare i set in città dal sindaco Gian Paolo Gobbo. Cose dell’altro mondo, appunto. «Non ci era mai capitata una cosa del genere» fanno sapere dall’organizzazione. Di rifare completamente il piano delle location, di disdire le camere d’albergo già prenotate da tempo, di mandare all’aria gran parte del lavoro e di dirottare tutto (o quasi) verso un’altra città veneta, Bassano del Grappa. Il cui sindaco Stefano Cimatti è invece già a braccia aperte: «Per Treviso ci sarebbero stati troppi disagi? Non ne ho idea, noi siamo felicissimi di poter ospitare la troupe. Vuol dire che in città nelle prossime settimane ci saranno due set, quello di Francesco Patierno e quello dei Vanzina, anche loro a Bassano per l’ultimo film. Ma sono tranquillo, sono entrambi distribuiti da Medusa, non si pesteranno di certo i piedi». A puntarli (invece) i piedi, è stato il sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo. Che, a sentire la produzione, «avrebbe fatto chiaramente capire che non gli faceva piacere che questo film fosse girato nella sua città». Dal diretto interessato invece un altro tono e, soprattutto, un’altra motivazione dello stop: «Non posso dire di no alle riprese di un film in città - dice Gobbo—ma non posso neanche mettere a disposizione dipendenti del Comune e vigili per la sua realizzazione». Vigili?
«Chiedevano la collaborazione del Comune per la viabilità e la sicurezza, per bloccare strade e circolazione per settimane, volevano anche portare un toro per una scena da girare in piazza dei Signori, non miè sembrato il caso. Ci avevano anche chiesto di girare negli uffici a Ca’ Sugana ma non l’ho ritenuto opportuno ». In realtà la verità pare vada cercata nel mezzo. Qualche perplessità per i disagi, certo, ma anche alcuni dubbi sulla sceneggiatura del film che vedrebbe come protagonista (Diego Abatantuono) un imprenditore che dalla propria tv privata lancia appelli contro l’invasione degli extracomunitari. Plot per alcuni stereotipato. «L’ennesimo tentativo di gettare del fango sulla nostra terra - dice il consigliere regionale leghista (e bassanese) Nicola Finco —, Gobbo ha fatto bene, a Cimatti invece interessa solo apparire, non ha a cuore l’immagine della città». Ipotetici stereotipi che, settimane fa avevano attirato le ire di Thomas Panto: «Quel film offende la memoria di mio padre, sono pronto a querelare tutti», aveva detto. E adesso, che il set emigra a Bassano? «Non abbasso la guardia—dice Panto—ma devo confessare che la decisione di Gobbo mi solleva un po’. Alla fine è meglio così, lontani da Treviso, l’identificazione tra mio padre e l’imprenditore interpretato da Diego Abatantuono sarà forse menoimmediata. Vedremo quando uscirà nelle sale, maforse lo spettatore non farà uno più uno...».
Chi invece non è assolutamente d’accordo con la scelta di Gian Paolo Gobbo è lo scrittore e sociologo veneziano Gianfranco Bettin. «Dire no ad una produzione culturale non è mai un bel gesto — ragiona Bettin —, è sempre un qualcosa di negativo, che stona, che ostacola in qualche modo la libertà d’espressione.Non conosco le motivazioni che hanno spinto il sindaco a negare Treviso, ma alla fine si tratta di un’occasione perduta.Nonpiacevano i contenuti dell’opera? C’era sempre il tempo per criticarli e contestarli a posteriori, una volta uscito il film nelle sale. Ma farlo a prescindere, non so... non mi piace». Più cauta la capogruppo del Pd in Regione Laura Puppato: «Se Gobbo riteneva l’opera dannosa per l’immagine della città ha fatto bene a "chiudere" Treviso ma le valutazioni preventive sono sempre molto delicate...». A Bassano non lo si dice apertamente ma la scelta del sindaco leghista ha fatto stappare qualche bottiglia in Comune: «Macché disagi — dice il primo cittadino Stefano Cimatti — abbiamo tutto da guadagnarci. Io forse un po’ meno. Mi sfratteranno per un paio di giorni dal mio ufficio (ride). Se hanno chiesto anche ame di fare una comparsata? No, sono troppo serio...».

http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/politica/2010/16-ottobre-2010/film-immigrati-via-treviso-gobbo-troppo-traffico-bettin-censura-1703965345026.shtml


sabato 16 ottobre 2010

Chi ha paura del rom cattivo?

Perché gli ’zingari’ ci fanno tanta paura?

Perché un linguista ha qualcosa da dire sulla questione delle espulsioni dei rom dalla Francia e sui dissapori tra il governo francese e l’Unione Europea? Beh, ha qualcosa da dire, innanzitutto perché – anche se, dopo che la polemica è montata, la cosa è stata un po’ dimenticata – l’indignazione della commissaria Viviane Reding contro il governo di Parigi riguardava principalmente il fatto che nella circolare del ministero dell’interno, pubblicata dai giornali, venissero identificati esplicitamente i “campi dei rom” come obiettivo prioritario degli sgomberi. Ora, il termine rom designa specificamente un gruppo etnico, ed è questo maldestro riferimento ad un’etnia che ha fatto infuriare, più che il fatto in sé, le autorità europee. Il problema è che, come tutte le parole (è una delle caratteristiche principali del linguaggio umano), questo termine è polisemico. In senso tecnico, in effetti, con rom si designa un’etnia specifica, che parla una serie di lingue specifiche e che ha una certa origine. Non tutti i rom sono nomadi e non tutti i nomadi sono rom. In realtà, nel linguaggio comune, rom designa quelli che, ancora quando ero bambino io, si chiamavano comunemente zingari, un termine che la political correctness ci vieta di usare. Col tempo ci siamo abituati a queste piccole ipocrisie verbali, e ci sembra normale chiamare disabili quelli che un tempo erano chiamati paralitici, neri o gente di colore gli ex "negri" e omosessuali i "culattoni". A volte queste etichette politically correct derivano da termini tecnici (disabili), a volte no (neri), ma il fatto è che comunque, quando entrano nella lingua comune, perdono il carattere tecnico e, poiché il normale cittadino è meno disposto ad accettare le sfumature e le definizioni precise dello specialista, diventano perfetti sinonimi, socialmente più accettabili, dei termini precedenti. Quando Bossi dice che i rom sono tutti ladri non mostra, naturalmente, più rispetto nei loro confronti che se dicesse che tutti gli zingari sono ladri. La sostanza non cambia, semplicemente ci si adatta alla convenzione sociale che sgradisce certi vocaboli. Nel caso della circolare francese, il funzionario che l’ha scritta deve essersi trovato nella situazione di dover scrivere “sgomberare i campi di zingari”, ed ha usato la parola che gli sembrava meno sconveniente.
Ma c’è un altro punto che, da linguista, mi interessa. I linguisti, soprattutto quelli che studiano l’origine del linguaggio, considerano che la differenza fondamentale tra il linguaggio umano e quello animale è che, diversamente dalle api e dagli scimpanzé, noi non siamo condannati a parlare unicamente del ‘qui ed ora’. Quello che fa dell’uomo un vero ‘animale parlante’ non è il saper dare un nome alle cose e utilizzare delle parole, ma è saper parlare di cose che sono accadute nel passato, o accadranno nel futuro, o stanno accadendo altrove, e addirittura di cose immaginarie che non accadranno mai. Se ci pensiamo bene, questa capacità di andare al di là dell’esperienza immediata è una potenzialità cognitiva formidabile, e non è sorprendente che gli specialisti le attribuiscano tanta importanza.
Ma cosa c’entra tutto questo con i rom e Sarkozy? C’entra, e cerco di spiegare perché. Si dà il caso che io abiti in Francia, e, sinceramente, tutta questa emergenza rom non l’avevo mai percepita. Sì ho visto qualche (rarissimo, per la verità) ‘zingaro’ lavare i vetri ai semafori, ho visto dei campi di roulotte passando in autostrada, ma la mia esperienza dei ‘rom’ (nel senso popolare, e non tecnico) finisce lì. Si dirà che abito in un quartiere privilegiato di una città che, pur grande, è relativamente tranquilla. Sarà anche vero, anche se per andare al lavoro attraverso quartieri dove non andrei volentieri di notte. Però, oltre che alle cifre sulla vera consistenza della comunità rom (che sembrano sempre essere inferiori a quelle che giustificherebbero un’emergenza), mi piacerebbe anche che si cifrasse quanti cittadini non rom sono interessati da questa presunta emergenza. Non nego che ci possano essere persone che ne sono veramente colpite, tanto da percepirla come un’emergenza (e non voglio essere ipocrita, alzi la mano chi vorrebbe che un campo di zingari si installasse vicino a casa sua, io no), ma io non posso dire di aver mai ‘esperito’ un rom, e con me, sospetto, la stragrande maggioranza della popolazione.
Tutto questo per dire che questa faccenda dei rom è, anche, una grande ‘storia’ che ci viene raccontata. Pensiamo un momento alla mole di informazioni a cui, in quanto persone del XXI secolo, siamo sottoposti in un giorno. Ora pensiamo, tra quelle informazioni, qual è la percentuale di quelle che abbiamo appreso per esperienza diretta. Infima, rispetto a quella che abbiamo appreso dalla televisione, dai giornali (se li leggiamo) e da Internet. E d’altronde, diversi esperti di comunicazione considerano il mondo dell’informazione e della politica attuali come un grande storytelling. Pensiamo ora alla quantità di informazioni a cui era sottoposto, senza andare troppo lontano, un contadino di inizio secolo. Un buon 80%, diciamo, di queste informazioni era il frutto della sua esperienza immediata, poi c’erano sicuramente le ‘storie’ che gli raccontavano in chiesa, e qualche ‘storia’ o ‘leggenda’ che si tramandava. La paura dello zingaro fa parte di queste leggende che non siamo ancora riusciti a toglierci dalla testa. Il problema è che il nostro cervello ha imparato a raccontare ‘storie’ ma, evidentemente, non siamo ancora del tutto attrezzati a distinguerle dalla realtà, tanto è vero che il contadino di inizio secolo aveva davvero paura di finire all’inferno (non sto affermando che l’inferno non possa esistere, ma sono abbastanza certo del fatto che lui non l’avesse mai visto), e che a molti di noi piacerebbe davvero uscire a cena con George Clooney o Scarlett Johansson (a seconda che siamo uomini o donne), senza averli mai visti dal vivo. La dimostrazione di questa nostra inabilità a distinguere la realtà dalla fantasia la vediamo nei casi in cui l’uomo è più fragile, le malattie, l’infanzia (chi ha bambini sa quanto possano essere affabulatori), anche il sonno (io una volta ho sognato che facevo uno spettacolo con Dario Fo).
Tutti abbiamo avuto una nonna, una zia, una vicina di casa che ci ha fatto paura con lo zingaro ladro o rapitore di bambini. Quelli, poi, che abbiamo visto dal vivo erano sporchi e malvestiti. Quali migliori ingredienti di questi per un grande storytelling collettivo, uno storytelling, poi che, evidentemente, è politicamente ed elettoralmente redditizio?
Uno pensa tutte queste cose e poi legge sul giornale che una signora ha pagato ventimila euro a tre persone perché le ammazzassero il marito per l’eredità. La signora era di Treviso, e i sicari, rispettivamente, di Vazzola (Treviso) e di Fregona (Treviso). E allora, ti chiedi se agli abitanti di queste contrade faranno più paura i rom o i loro trevigianissimi e stanzialissimi vicini di casa.
(pubblicata da Stojanovic Vojislav su fb)



domenica 10 ottobre 2010

Chomsky e la comunicazione

(da: Byoblu.Com - Il Videoblog di Claudio Messora)
Di Avram Noam Chomsky tutto si può dire tranne che sia un complottista da quattro soldi. Teorico della comunicazione, linguista, filosofo, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, nonché fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, spesso indicata come il più rilevante contributo alla linguistica teorica del XX secolo.

Uno così non poteva non accorgersi della strumentalizzazione totale dei mezzi di informazione americani. Ma soprattutto, uno così non poteva tacere, adeguarsi al sistema. E così Chomsky ha denunciato senza mezzi termini la manipolazione costante della comunicazione mediatica.
La televisione, la stampa e la radio potrebbero favorire la comprensione reciproca, potrebbero facilmente unire anziché dividere, creare accordo in luogo del disaccordo, fare in modo che ci si possa finalmente e semplicemente capire.
Ma non lo fanno, riducendosi a mero strumento di dominio e distorsione culturale per favorire interessi che sono molto poco collettivi e troppo spesso individuali.

Eppure, siamo così abituati all'asservimento intellettuale che pensare ad una televisione che informa senza deformare, che mostra anzichè dimostrare, che non fa valutazioni di opportunità politica, di convenienza strategica, di fazioso utilitarismo ci sembra ormai irrealistico e viene cinicamente liquidato come utopico.
Ma utopico è un asino che vola, non una dialettica onesta, che ragiona per argomentazioni coerenti, senza secondi fini, senza barriere ideologiche, senza forzature corporativiste.
Avere una comunicazione trasparente e non strumentale, guardare un telegiornale che dia le notizie senza interpretarle, assistere ad un dibattito vero, incentrato su temi di reale interesse pubblico, vedere uno show che sia pensato per cittadini del terzo millennio, e non per svagare le scimmie nelle gabbie di uno zoo non è utopico: è sacrosanto, è fattibile, è assolutamente normale.

Quando la normalità viene trasformata nel lusso, la regola nell'eccezione, il possibile nell'impossibile, a lungo andare si finisce per credere di essere inadeguati: "se credo in qualcosa che tutti sembrano giudicare irrealizzabile, allora devo essere sbagliato io". Ma non è così. In realtà sono in tanti a pensarla esattamente come noi, ma abbiamo perso la capacità di comunicare, di condividere opinioni se non attraverso i mass-media. In altre parole: siamo intimamente portati a fidarci solo della finzione che appare nel teatrino televisivo. Abbiamo più considerazione della gestualità della marionetta che non delle manovre del burattinaio. Crediamo ormai solo nella rappresentazione e diffidiamo del mondo reale.

Ulisse si legò al palo della sua nave, resistette al richiamo delle sirene e ne ebbe in cambio la vita.

Noi al canto delle sirene non abbiamo opposto alcuna resistenza: suoni melodiosi, immagini ipnotiche e narrazioni coinvolgenti ci hanno radunati per quasi un secolo nella caverna di Platone, dietro a megaschermi che somministrano pillole di vita artificiale che non è la nostra, né mai potrà esserlo.
Questo è il colossale, madornale, irrisolto equivoco: i media propagandano le idee e le necessità di pochi, contrabbandandole per quelle dei molti, costruendo una vita immaginaria su misura, più invitante di quella reale, appositamente resa così difficile e così poco attraente che rifuggirla è una comprensibile debolezza umana. Lattine di metallo nelle quali trascorrere ore, giorni, mesi, incolonnati e indottrinati da una voce che il loudness rende più autorevole di quella di un reale compagno di viaggio, relegato viceversa al ruolo di fastidioso occupante di una scatoletta adiacente alla nostra; cubi di cemento dove bivaccare nelle sonnolenti, apatiche e solitarie serate passate in compagnia della grande famiglia televisiva, mentre tua moglie nell'altra stanza frequenta un altro giro di amici, inesistenti anch'essi, illusoriamente proiettati sulla frequenza successiva, e mentre i tuoi bambini guardano pesci parlanti e macchine che si guidano da sole dentro un mini-schermo da 7 pollici che ti esonera dalla fatica di inventarti una fiaba della buonanotte. Qualcuno ha già pensato anche a quello, l'ha fatto per te, per rendere la tua vita migliore, mentre la tua esistenza si compie in uno spazio sempre più ristretto, dove un tempo ti saresti aggirato come un leone in gabbia, imprigionato in pochi metri quadrati acquistati in cambio di un ipoteca sulla vita.
Ma a che servono spazi aperti e grandi praterie, quando il mondo è tutto lì, dietro allo schermo di un televisore al plasma che ti separa da ogni tuo desiderio?
Così, privati di un'identità, della bellezza, della fisicità sensoriale di un mondo nel quale vivere, della possibilità di inebriarsi con le alchimie di suoni, colori e profumi riservate ai pochi azionisti di riferimento della realtà, agli esclusivisti della natura, ai proprietari delle coste e delle spiagge, ai sovrani delle terre emerse, ai signori dell'acqua piovana, ai dispensatori di aiuole e giardinetti pubblici per portarci a spasso il cane, ai gendarmi dei confini disegnati e poi resi invalicabili, agli arbitri della nostra conformità morale al sistema sociale di cui siamo titolari senza potere di firma, così... noi non riconosciamo più noi stessi, perdiamo fiducia e ogni contatto con i sensi, ci alieniamo volontariamente da una vita che appare meno gradevole di quella inventata appositamente per noi, ci isoliamo e torniamo a suggere dal capezzolo materno, questa volta non latte ma illusioni cui siamo disposti a credere, purché ci venga risparmiata la consapevolezza di essere ortaggi in una coltivazione disseminata di letame, chimico anch'esso.

Nel tentativo di strappare la maschera gioiosa del mostro tentacolare che ci ruba l'anima, Chomsky ha individuato i dieci comandamenti della struttura Delta che droga le menti, ammaliandole, confondendo in loro ogni percezione, rimescolando realtà e fantasia, evidenza e costruzione illusoria, inducendo le messi umane ad ondeggiare come campi di grano al vento, a volgersi ordinatamente nella direzione in cui un grande polmone meccanico soffia, incessantemente, senza posa.

Poi, ogni tanto, ci pisciano sopra roteando l'arnese. Ecco come si formano i controversi e tanto famigerati cerchi nel grano.


LE DIECI REGOLE DELLA MANIPOLAZIONE MEDIATICA (Noam Chomsky)

1-La strategia della distrazione

L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. “Mantenere l’Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza. Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).

2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni

Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

3- La strategia della gradualità

Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni '80 e '90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.

4- La strategia del differire

Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini

La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedere “Armi silenziose per guerre tranquille”).

6- Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione

Sfruttate l'emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un'analisi razionale e, infine, il senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti….

7- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità

Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori".

8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità

Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti...

9- Rafforzare l’auto-colpevolezza

Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione!

10- Conoscere agli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano

Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.