mercoledì 19 gennaio 2011

Le strane scelte degli operai di Giampaolo Cassitta

C’è freddo e nebbia a dipingere questa giornata. Non troppi colori intorno e gli umori sono lividi, le lacrime ormai versate sono un contorno ad un paesaggio umido e disincantato, triste e melanconico. Ho aperto con molta calma l’armadio e ho scelto una bella camicia bianca. E’ una giornata importante. Si vota e posso permettermi anche io uno sfizio piccolo borghese. Decido di aggiungere anche una cravatta, quella con le farfalline gialle, ricordo ormai sbiadito della prima comunione di mia figlia, oggi laureata in cerca di lavoro.
Sono pronto. Ho deciso di fare una lunga camminata dentro questa Torino assonnata e sorda ai rumori dei suoi operai. Una volta, dentro questi palazzi dormitorio si sentivano odori e colori e parole del sud. Era la mia generazione. Adesso i nostri quartieri parlano tutti la stessa lingua ma son diventati molto più tristi. E più severi.
Il fiume mi osserva e non produce quel solito rumore d’acqua che scorre. Anche lui in attesa, come tutti, con un leggerissimo fastidio, a dire il vero. Se non ci fossimo, se avessimo continuato ad essere invisibili, trasparenti, la vita sarebbe continuata in maniera ordinata, come i lunghi viali e contro viali di questa città che non ha nessun cuore pulsante.
Gli operai. Giungendo a Porta Palazzo ho annusato l’aria. Una volta, l’alba si svegliava con i rumori dei motori che si recavano al Lingotto, a Mirafiori, che muovevano anime forti e desiderose di costruire un futuro per i propri figli. Oggi solo il silenzio ci avvolge. Quello, soprattutto, di essere assolutamente contrari a questa storia ed essere obbligati a fare una scelta diversa. Il cuore e la ragione. E il futuro che non ha orizzonti. Non ne vedo almeno in questo momento.
Gli operai. Quelli con le tute blu, sporche di olio pesante, intenso, quelli che, con le loro mani, sistemavano gli ammortizzatori, le bielle, i serbatoi, che respiravano quel sogno assoluto che è la velocità. Quelli che avevano pause sorridenti, nonostante tutto, che avevano panini untuosi, mani nere e anime belle, limpide. Quelli che avevano voglia di stringere i bulloni, che avevano la forza di una volontà vivace, incontenibile. Che avevano figli e mogli da abbracciare quando rientravano la sera, stanchi. Quelli che adesso li trovi solo nella retorica dei racconti. Quelli che adesso non parlano più di padroni ma convivono con amministratori che hanno stock option, dentro la globalizzazione e la flessibilità. Quelli che hanno un foglio bianco, una matita, una domanda e due risposte: si o no. E nessuna delle due scelte è quella giusta. Perché noi non vinciamo, mi son detto. Non vinciamo perché non siamo insieme, perché ci hanno divisi, bielle da una parte e ammortizzatori dall’altra. E il motore così non può girare. Magari si potesse scegliere il “parliamone”, proviamo ad essere capaci di ascoltare le ragioni di tutti, proviamo a sforzarci di pensare che c’è sempre una soluzione e che quella soluzione non può essere solo un semplice si od un perentorio. Ci sono i forse, magari, probabilmente, proviamo, vediamo, non accontentiamoci, non abbandoniamoci al pensiero unico. Queste parole mediane non si trovano in nessuna risposta secca che ci chiedono con questo strano referendum. Qualsiasi risultato frantumerà il futuro e la voglia di continuare. Siamo destinati a non proseguire insieme e nessuno penserà, tra qualche settimana, agli operai. Al loro odore forte di olio, di bielle e di molle e di vernice per la carrozzeria. Nessuno accarezza le auto come facevo io. Nessuno sa ascoltare il loro vecchio polmone che respira. Nessuno sa più attendere perché nessuno ha mai capito che per regalare la velocità occorre molta lentezza: nelle scelte, nelle previsioni, nel disegno, nel saper accarezzare le idee, nel saper scommettere sulla sicurezza e sul futuro. La velocità è un sogno che racchiude un lungo abbraccio e che non ci appartiene più.
Ho guardato il fiume, ho toccato la mia cravatta ormai datata. Mi son guardato dentro. E’ tardi, mi son detto. E ho freddo. Non ci sono più i rumori dei motori. Non li sento. Non li sento più. Ho raggiunto i portici. E mi son seduto su quella panchina dove aspetto. Non ho più fretta. Non c’è più fretta
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Questi potevano essere i pensieri di Paolino Scaccia, 58enne di Torrice (Frosinone), che il 7 dicembre 2007 è morto sul lavoro nel piazzale Fiat a Piedimonte San Germano, nei pressi dell’ingresso numero quattro. A lui e a tutti gli operai è dedicato questo piccolo contributo.

Giampaolo Cassitta, Sassari, 15 gennaio 2011.

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