mercoledì 25 agosto 2010

Stereotipo e pregiudizio

Talvolta gli immigrati o i rifugiati sono vissuti dal Paese che li accoglie come un peso economico e sociale, mentre molto spesso essi sono in grado di apportare un contributo notevole a chi li ospita.
Qualcuno addirittura, grazie al suo talento, può riuscire ad affermarsi, a ricoprire un ruolo di particolare rilievo e può diventare un elemento importante della società che lo ha accolto, entrando a far parte di quel paese, a volte, anche di quella dell’intera umanità.
Uno dei casi più famosi è quello del genio della fisica Albert Einstein che era un rifugiato costretto ad espatriare dalle persecuzioni razziali. Ma rifugiati sono stati almeno per un periodo della loro vita lo scrittore Victor Hugo, Giuseppe Garibaldi, lo scienziato Enrico Fermi, il Dalai Lama e molti e molti altri ancora.
L’accoglienza oggi riservata allo straniero è determinata da uno stereotipo e da un pregiudizio.
Lo “straniero”con la sua situazione di precarietà, fa riemergere il ricordo e la paura delle perdite di certe sicurezze (la casa, il lavoro, gli affetti familiari); e con essa anche il senso del fallimento, l’immagine infantile di essere disprezzato, indesiderato e non amato, che ciascuno di noi porta nel profondo.
Per rimanere indenni da questi sentimenti ecco che le persone o i gruppi si creano un’immagine degli altri, sulla base di inadeguate informazioni, con determinate caratteristiche negative che permetterà di disprezzarli per certe caratteristiche reali, che vengono esagerate, ma non inventate(stereotipo). Ad esse poi vengono associate opinioni e sentimenti negativi sostenuti perfino di fronte alla prova del contrario (pregiudizio).
Succede ancora oggi,per esempio, di ascoltare definizioni del tipo “italiano pizza,spaghetti e mandolino” per descrivere l’italiano tipico;quando non si arriva a semplificazioni ancora più brutali e offensive, quali “italiani tutti mafiosi”.
Questa è un’immagine semplicistica e anacronistica legata al passato e dove l’isolamento di una caratteristica dell’abitante (quella che diverte o affascina di più) diventa il tutto, vale a dire si estende all’intera popolazione.
Quasi mai lo stereotipo a cui facciamo ricorso per delineare un rom, un marocchino, un indiano, un albanese è considerato corretto e realistico.
Da oggi mi farà piacere condurti alla scoperta del mondo degli immigrati nel modo più completo possibile. Ti saranno presentati gli aspetti più importanti della società dei vari Paesi proprio per consentirti di superare gli stereotipi e il pregiudizio.
Angela I.Baldi

sabato 21 agosto 2010

Prepariamoci

La scuola sta attraversando un periodo veramente difficile, i docenti ne avvertono per primi i segnali di incipiente decadenza e precarietà.
E'davvero molto sconfortante e demotivante lavorare in contesti scolastici dove si respira grande incertezza sul futuro educativo e formativo dei discenti .
Gli insegnanti, in questo nuovo anno scolastico, sono chiamati a resistere potenziando il proprio impegno professionale per cercare di attutire i colpi che vengono inferti da più parti per colpire al cuore la scuola pubblica.
Nelle singole istituzioni scolastiche è bene "chiarirsi", in sede di Collegio dei Docenti,su ciò che si intende fare per garantire ai discenti una formazione umana e culturale adeguata..
Elaborare,definire e gestire il progetto identitario della scuola ( POF) è,ancora per poco ( vedi ddl Aprea), competenza esclusiva del Collegio dei docenti ( DPR 275/99), per cui la componente docente può e deve condizionare le scelte , le azioni e gli obiettivi da conseguire.
I dirigenti scolastici, pur nelle ristrettezze economiche ed in presenza di norme ostative, dovranno riscoprirsi buoni educatori,avendo il compito di creare un clima favorevole , di orientare,collegare, mettere insieme sforzi, azioni dei gruppi e dei singoli,di coinvolgere tutto il personale della scuola e le famiglie,di fare in modo che tutti gli obiettivi siano conseguiti e condivisi, di riconoscere ed elogiare il lavoro altrui.
Per costruire rapporti positivi di interazione all'interno della scuola e tra scuola e società, penso che sia necessario implementare un sistema integrato di comunicazioni, relazioni, documentazione e di informazione, in grado di sollecitare la partecipazione e il consolidarsi di un clima collaborativo in cui le varie prospettive culturali possano incontrarsi e fondersi.Il clima organizzativo,le relazioni interpersonali e lo stile gestionale di una scuola influenzano notevolmente la motivazione del personale che deve trovare nell'ambiente di lavoro le spinte giuste per investire le risorse di cui dispone, il proprio entusiasmo e la propria creatività in un processo di cambiamento e di innovazione.Uno stile relazionale, improntato all' affettività, cordialità ed attenzione verso gli interlocutori, garantisce in buona parte il successo di ogni attività. Anche la gestione della classe e della didattica va rivisitata secondo criteri nuovi che prevedano l'introduzione di nuove unità di apprendimento e nuove metodologie didattiche che incidono positivamente sulla soddisfazione degli studenti e sulla loro motivazione allo studio, la condivisione degli obiettivi, i l costruire insieme i percorsi didattici personalizzati, il concertare modalità di gestione dei tempi e dell'ambiente classe.
Auspico che nelle scuole, finalmente, venga concepita una funzione strumentale che rivesta il ruolo di favorire e stimolare il dialogo,la relazione interpersonale e la comunicazione tra gli insegnanti e gli altri protagonisti implicati , per superare quella"solitudine umana e culturale" che spesso buona parte dei docenti vive dentro la scuola.
Le competenze socio-relazionali del docente che ricoprirà l'istituenda figura di funzione strumentale nell'area "Relazioni interpersonalie comunicazione", devono essere messe in campo e valorizzate per gestire la comunicazione e le relazioni interpersonali, per condurre produttivamente i gruppi di lavoro, per coinvolgere gli altri operatori scolastici, gli studenti, i genitori e tutti i soggetti interessati a partecipare alla vita della scuola,per prevenire eventuali conflitti o risolverli.
Penso ad una scuola in cui tutte le attività educative e didattiche messe in campo siano dotate di senso e valore, siano ben collegate tra loro, esprimano risposte congruenti alle domande che provengono dai ragazzi ,dalle famiglie e dalla società nel suo complesso.
Un collegio dei docenti che, in un rinnovato spirito di servizio, sia in grado di individuare i ruoli e quindi le persone giuste per attivare e attuare il progetto educativo e formativo d'istituto.
Per ridargli libertà di espressione, autonomia e prestigio culturale,riprendere la sua capacità di iniziativa ed esplicitare l'offerta formativa, bisognerà individuare alcune aree di intevento strategiche, variabili in funzione dei luoghi e dei contesti , in cui riconoscersi e attivarsi.
In sintesi, io ho pensato a queste:
PROGETTO EDUCATIVO E FORMATIVO D'ISTITUTO
RISORSE INFORMATICHE E INTRODUZIONE DELLE NUOVE TECNOLOGIE NELLA PRATICA DIDATTICA
RELAZIONI INTERPERSONALI E COMUNICAZIONE
VALORIZZAZIONE MERITO , ECCELLENZE, PROGETTI, CONCORSI
ACCOGLIENZA, DISAGIO, RECUPERO, PARI OPPORTUNITA' FORMATIVE, PERCORSI PERSONALIZZATI
Ho la consapevolezza di non dire nulla di nuovo e che è più facile dire che fare, spero però che la mia analisi, che può essere approfondita, contribuisca a far ricordare agli smemorati quanto sia importante riscoprire il ruolo del Collegio dei Docenti, senza il quale la libertà di insegnamento nella scuola pubblica, sancita dalla nostra Costituzione , potrebbe essere messa in discussione.
Non si dimentichi mai che" la libertà di insegnamento sta alla funzione docente come l'indipendenza sta alla funzione del giudice !"
Infine,le mie riflessioni sottolineano l'importanza del dialogo autentico che deve instaurarsi fra gli insegnanti per generare un clima relazionale positivo che consenta a tutti,dirigenti, docenti,personale ATA, alunni e famiglie di star bene a scuola, essere fiduciosi e fare fronte comune per resistere ai reiterati tentativi di affossare la scuola pubblica.(Saverio Fanigliulo-nota FB del 20 agosto 2010)



martedì 17 agosto 2010

Tracce di petrolio nelle larve di granchio


La recente scoperta di tracce di petrolio nelle larve di granchio blu ha confermato la previsione degli esperti a seguito delle notizie disastrose per l’ecosistema del Golfo. E’ la prova che il petrolio fuoriuscito dall’esplosione della Deepwater Horizon ha già iniziato ad inserirsi nella catena alimentare, dove potrebbe essere fatale per gli animali che lo ingeriscono.L’AP riporta che gli scienziati che hanno effettuato la scoperta del petrolio nelle larve di granchio blu (un gruppo di frutti di mare del Golfo, che è anche un indicatore strettamente sotto osservazione per i segni della contaminazione) hanno potuto confermare alcune delle loro peggiori paure. Vale a dire, che la fuoriuscita avrà un impatto sull’ecosistema del Golfo per gli anni a venire.
“Sembrerebbe suggerire che il petrolio ha raggiunto una posizione in cui può iniziare a muoversi lungo la catena alimentare e non solo sospeso in acqua. Qualcosa probabilmente mangerà quelle larve…e poi l’animale sarà mangiato da qualcosa di più grande e così via” ha dichiarato Bob Thomas, un biologo alla Loyola University di New Orleans.
Le piccole creature potrebbero recepire basse quantità di petrolio e potrebbero sopravvivere, ha spiegato Thomas,ma quelli in cima alla catena, come i delfini e i tonni, potrebbe ottenere fatali “megadosi”.
E anche se i granchi non sono stati immediatamente uccisi dal petrolio, potrebbero avere un grave effetto sulla loro capacità di riprodursi, dicono gli scienziati. Se sono abbastanza colpiti, questo potrebbe causare una diminuzione della prossima generazione, e se i pescatori fossero autorizzati a riprendere le attività, la popolazione potrebbe essere ulteriormente decimata. Questi tipi di impatti sostengono le pretese di altri ricercatori, i quali temono che il peggio dei danni dovuti alla fuoriuscita della BP potrà essere portato agli strati di vita che risiedono in acque profonde.
Gli scienziati fanno notare che è una buona notizia che la maggior parte delle larve che stanno raccogliendo sono vive, e non sono preoccupati che i granchi blu possano essere cancellati dalla marea, perché semplicemente sono troppo abbondanti per sparire. Ma la preoccupazione che un numero ridotto di granchi possa avere un impatto sugli altri animali che fanno affidamento su di loro come fonte di cibo, potrebbe pregiudicare le altre popolazioni. E chissà, alla fine anche l’uomo.
Fonte: [Treehugger]

domenica 15 agosto 2010

Vendola: transizione? "Non per continuare la macelleria

È un lungo monologo, questo di Nichi Vendola. Possiamo parlare, per prima cosa, del clima di veleni del livello dello scontro? avevo chiesto. Non si è interrotto più. Ha detto di Tremonti e di Prodi, di elezioni anticipate e di Cln, di governi tecnici, di istituzioni a rischio e coalizioni possibili, di sinistra soprattutto, citando - al principio - le parole scritte da Alfredo Reichlin per l'Unità . Di come «liberare il castello dalla presenza di un sovrano ingombrante senza colpi di palazzo o di teatro, misurandosi piuttosto col guasto morale che infetta tutto il regno». Ascoltiamo.
«C'è un clima pazzesco, un'aria irrespirabile. Non pongo la premessa come clausola di stile, ma come problema di cultura politica. Non solo a destra, anche a sinistra quando si manifestano posizioni forse discutibili, magari eccentriche rispetto alla realpolitik si scatena l'intolleranza. Da quando ho posto il tema – ho accettato di assumere su di me la proposta che correva di bocca in bocca, di sguardo in sguardo – parlo della mia candidatura alle primarie, sono stato oggetto di attacchi con risvolti psicanalitici, psichiatrici, sociologici, molti si sono improvvisati miei biografi in un coro tutto sopra le righe, fuori asse. È un problema generale, di tutta la politica, e riguarda il modello di relazioni umane che abbiamo in mente. Discutiamo politicamente delle nostre idee senza dedicare tempo al gioco al massacro, alla brutalizzazione.
Capisco che un gruppo di cattolici integralisti faccia tiro a segno nei miei confronti ma capisco meno una parte della sinistra che si comporta così. Chiedo: chi ha paura del popolo democratico? Il mio invito a non mollare le primarie significa questo: investire sul popolo di centrosinistra del quale i militanti del Pd sono la parte più importante e generosa. Non propongo furbate o giochi d'azzardo. In fondo ogni volta che il ceto politico ha deciso di cedere una quota del proprio potere in favore del processo democratico è stato un fatto straordinario e sorprendente, anche quando l'esito sembrava predefinito. Capisco che ci sia chi preferisce mantenere le rendite di posizione. Due sono le paure che mi pare di scorgere: quella della detronizzazione, e il fatto che la costruzione dei programmi esca così dai circuiti ristretti e diventi collettiva. In parte questo è già accaduto con la Fabbrica del Programma di Romano Prodi. Il politicismo è asfissiante. Se potessimo invece dare parola ai saperi, ai talenti per far parlare la realtà della vita: che modello di ricostruzione si è applicato all'Aquila dopo il terremoto; che intendiamo fare delle risorse idriche; i processi di desertificazione dei bacini del mediterraneo; mettere a confronto modelli formativi... parlare di tv non solo come lotto politico da occupare ma come veicolo della costruzione delle coscienze e dell'immaginario collettivo. Vedo invece un balletto di formule ereditate pari pari dalla prima Repubblica.
Siamo di fronte ad una crisi mondiale, europea e alla dissoluzione del nostro paese. Abbiamo il dovere di alzare lo sguardo, di fare una discussione non legata al culto della contingenza. Se anche un grande realista come Alfredo Reichlin invita a un nuovo, più alto orizzonte, a una nuova antropologia e ci domanda se interessi ancora la sinistra come nicchia e bottega o se non di debba piuttosto riprendere in mano la missione per il destino di un paese... E invece qual è la discussione oggi: chi tra i protagonisti della politica sia vecchio e chi nuovo? La domanda è un'altra: come si fa a liberare il castello dalla presenza ingombrante del sovrano senza misurarsi col guasto morale che infetta tutto il regno? E come si chiude il ciclo del berlusconismo: con un colpo di palazzo o di teatro, o piuttosto con un rendiconto, anche aspro, su ciò che è accaduto nella società? La diatriba su voto subito o governo tecnico, certo. Io non sono in Parlamento, non ho deputati e senatori, faccio un ragionamento politico: se ci fossero le forze e il coraggio per mettere in campo una transizione capace di liberarci di un'ipoteca come la legge elettorale non potrei che brindare e compiacermi del pentimento di chi diceva che il proporzionale è la panacea di tutti i mali.
Ma non accetto l'idea di un governo di transizione che prosegua nel solco di chi ha operato la macelleria sociale di Tremonti. Un patto col diavolo? Il problema è intenderci sulla missione. Bisogna anche considerare il livello del danno, per dirla con Josephine Hart: "Ci si vergogna solo la prima volta". Questo è un regime che non si vergogna più di niente, bisogna opporsi a questa guerra civile a bassa intensità combattuta dentro i palazzi del potere a colpi di dossier, di violenza verbale, di menzogne. È il sintomo di una decadenza gravissima: deposita nel Paese uova di serpente. Dunque, il diavolo. Parliamo dell'ipotesi di una grande aggregazione in funzione antiberlusconiana, dunque anche di un cartello elettorale? È in corso lo squagliamento del centrodestra come lo abbiamo conosciuto. Fini è pure espressione di una destra: democratica, sì, europea. Il Cln mi pare un'elucubrazione estiva. Di fonte allo spettacolo del dissolvimento del fronte avverso cosa fa la sinistra intesa come luogo del nesso lavoro-libertà-conoscenza? Lo chiedo con affetto a Bersani. Abbiamo interesse a mettere in campo, dentro questa sinistra, un'agenda di temi e di processi che lasci da parte i giochi delle belle statuine delle tante sinistre, i riformisti e i radicali, gli antagonisti e i moderati? Un gioco che avvantaggia certo le rendite di posizione ma produce paralisi del sistema: è il male che ha già divorato l'Ulivo, non ripetiamolo. La grande alleanza non deve essere l'Arca di Noè che consenta a ciascuno di salvarsi: non lavoriamo per il ceto politico ma per il Paese.
Ho grande affetto per Prodi, temo che in politica non si diano mai secche repliche del passato ma le suggestioni del prodismo, pur con tutti gli errori commessi, ha portato una politica con grandi potenzialità espansive. Se Berlusconi è stato il responsabile della narcotizzazione televisiva, della deresponsabilizzazione di massa il rovesciamento del sistema che ha creato deve partire da un nuovo grande protagonismo democratico. Sono mortalmente stufo delle diatribe simbolico-ideologiche all'interno della sinistra: non hanno più tempo né luogo. Io non mi batto per una sinistra minoritaria, mi batto per vincere. Non bisogna avere paura della nostra gente, allora. È con la nostra gente che vinceremo, insieme a loro e grazie a loro».
(Condiviso da Facebook da una nota di PUGLIAmo l'Italia: NICHI VENDOLA candidato premier 2013
http://www.unita.it/news/italia/102422/vendola_transizione_non_per_continuare_la_macelleria_sociale

mercoledì 11 agosto 2010

Nardò nuovo modello di accoglienza

Nardò: una risposta ai non luoghi. Contro lo sfruttamento degli immigrati.

Perché Nardò (provincia di Lecce, ndr) può essere considerato un nuovo modello di accoglienza, una risposta ai “non luoghi” delle tante campagne del sud Italia? Perché evidentemente rompe quell’isolamento sociale che ha fatto dei migranti dei soggetti invisibili. Ecco un luogo dove all’accoglienza e alla tutela di questi nuovi braccianti si coniuga la ricomposizione di una soggettività sociale del mondo del lavoro. Quando si arriva a Nardò, sulla SS 101 si incontra la Masseria Boncuri, edificio di chiara fattezza padronale di proprietà del Comune; così come comunali sono i fondi di ristrutturazione e gestione dell’accoglienza.
Pulita e ben sistemata la zona tende, dove trovano posto trecento lavoratori. L’idea è semplice. Gli ospiti si registrano fornendo le generalità e la “carta d’ingaggio”, che permette loro di vedersi assegnato un posto letto in tenda o nei locali della masseria. Non ci sono retate o controlli ferrei da parte delle forze dell’ordine, poiché tutte le parti in gioco – lavoratori e datori di lavoro - tengono fede agli impegni presi. Non solo quelli riguardanti l’ordine pubblico, bensì anche il rispetto del contratto nazionale del lavoro, del salario tenuto di solito più alto rispetto a quello offerto in altri luoghi. La raccolta dei pomodori è pagata 8 euro a “cassa”, mentre la raccolta delle angurie 45 euro al giorno (rispetto ai soliti 2,50/5,00 euro e 35 euro). Salvo poi le sottrazioni per i caporali, cancro ben lontano dall’essere annientato, ma che vede, quando l’accoglienza agli immigrati è qualitativa, un seppur minimo ridimensionamento.
Al Centro dell’area c’è la masseria Boncuri, vero e proprio centro organizzativo con uffici, magazzino, area mensa - quest’anno attrezzata con letti a castello per ospitare lavoratori -, e stanze per i Volontari-Briganti, che si alternano in un’esperienza umana e politica di altissimo valore. Vengono da tutta Italia, questi ultimi, anche da quelle zone più restie alle politiche di integrazione e di accoglienza, dove è la Lega Nord a dettare le politiche xenofobe e razziste. Ad oggi sono un centinaio quelli che si sono avvicendati e molti altri, come dell’Osservatorio Migranti Basilicata, sono passati di lì, incuriositi dal lavoro che si sta svolgendo. Lì abbiamo incontrato la Caritas di Andria e il responsabile dell’Ass. Etnie di Bisceglie. Molte altre realtà sono passate di qua e altre si sono date appuntamento e arriveranno dopo di noi. Per questo si sente la necessità di costruire una rete meridionale tra le diverse realtà che lavorano assieme ai migranti; fare una sintesi di esperienze, di lavori, di fatiche a volte malriuscite con altre di successo. Si sente il bisogno di parlarsi ed ascoltarsi affinché si metta fine allo schiavismo e allo sfruttamento portando nuovi diritti all’interno di quelle realtà difficili nelle quali i migranti sono i protagonisti.
(Di Gervasio Ungolo Osservatorio Migranti Basilicata)

martedì 10 agosto 2010

Afghanistan, dove vanno gli aiuti umanitari?

Fare la guerra per fare la pace. In realtà, fare la guerra per fare soldi. Un assioma che la storia ha riproposto in molte salse ma sempre con la stessa conseguenza: morte e dolore tra i popoli più poveri, affari d'oro per i ceti più ricchi. Un macabro escamotage per fare business sotto la falsa effige della difesa della patria, della conquista dello spazio vitale o della caccia al colpevole. Fumo negli occhi di un'opinione pubblica da convincere. Dalla Guerra dei Trent'anni, all'armamento nazista, fino alle guerre più recenti, scoppiate dopo la tragedia dell'11 Settembre. Ultimo terribile capitolo, la guerra in Afghanistan, una guerra dichiarata contro un nemico invisibile, più volte annunciata come vinta, ma mai davvero conclusa. Una guerra che è costata, e costa tuttora, migliaia di vite umane, tra soldati e civili, e sulla quale si innesca un'altra macabra guerra: quella dei numeri. Sullo sfondo di una simile tragedia, lo scandalo dei fondi umanitari destinati al popolo afgano, tra i 23 e i 27 miliardi di dollari, soldi che non si sa ancora come siano stati spesi. Un dubbio atroce, difficile addirittura da pensare: che questi fondi, stanziati per scopi umanitari, siano finiti ad ingrassare le tasche di qualche affarista e faccendiere negli stessi Paesi donatori, invece di andare ad aiutare chi la vita rischia di perdere ogni giorno. Secondo una relazione presentata all'Europarlamento, tra il 70 e l'80% di questi fondi finirebbero in mani diverse da quelle afgane. Sotto accusa non la corruzione delle autorità locali ma le organizzazioni internazionali che gestiscono gli aiuti: ONU, associazioni non governative varie, Banca Mondiale e Banche regionali per lo sviluppo. Per questo motivo ho depositato, insieme al collega IdV Pino Arlacchi responsabile della relazione, un'interrogazione parlamentare per chiedere a Catherine Ashton, Alto Rappresentante del Servizio Europeo di Azione Esterna, cosa stia facendo e cosa intende fare l'UE per accertare e, in caso, combattere una simile vergogna. Inoltre, come Presidente della Commissione Controllo dei bilanci, ho rivolto alla Commissione europea delle domande precise sull'attuale gestione dei fondi UE in Afghanistan. Pesanti le accuse: corruzione e speculazione lungo la catena della gestione degli aiuti umanitari. Accuse che vanno verificate e, se accertate, punite pesantemente, non solo per il reato in se, quanto per il terribile scenario nel quale verrebbe commesso: un Paese, l'Afghanistan, in ginocchio dopo quasi 10 anni di guerra, un Paese dove oltre metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Uno sporco affare sul quale l'UE deve fare luce e l'Italia, che in Afghanistan grazie al Governo Berlusconi ha delle truppe, iniziare una profonda riflessione.(Luigi De Magistris)
http://www.luigidemagistris.it/index.php?t=p1270

venerdì 6 agosto 2010

La bambina di Hiroshima

Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti
nessuno riesce a vederli.

Sono di Hiroshima e là sono morta
tanti anni fa. Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.

Avevo dei lucidi capelli,
il fuoco li ha strinati,
avevo dei begli occhi limpidi,
il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi anche il vento ha disperso la cenere.
Apritemi; vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso:
non chiedo neanche lo zucchero, io:
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.

Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
e possano sempre mangiare lo zucchero.
Nazim Hikmet

mercoledì 4 agosto 2010

Somalia: giornalisti sotto attacco

Manifestazione per protestare contro un attentato durante una cerimonia di laurea, dicembre 2009 © AP Photo/Mohamed Sheikh Nor"Sono i giornalisti a raccontare al mondo cosa accade a Mogadiscio. Questo è il motivo per cui vogliono azzittirci. Ho pensato che morirò facendo questo lavoro, ma anche quando sono spaventato non posso tacere, perché se lo facessi non potrei raccontare queste cose, nessuno proteggerebbe i civili. Noi siamo gli unici a poterlo fare." (Un giornalista di Mogadiscio, Somalia) La Somalia è uno dei posti più pericolosi al mondo per un giornalista. In questo paese, tormentato da un sanguinoso e quasi ventennale conflitto, solo negli ultimi 18 mesi sono stati uccisi 10 giornalisti. Essere giornalista in Somalia può significare rischiare la vita per fare informazione. È quanto è accaduto a Nur Muse Hussein, morto dopo essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco mentre riprendeva dei combattimenti, o a Said Tahlil Ahmed, assassinato perché la sua radio aveva dedicato troppo spazio alla nomina di un esponente del governo. A Mogadiscio si può essere rapiti come Ahmed Omar Salihi, nelle mani del gruppo armato al-Shabab dal marzo 2010, costretti a lasciare una radio o un giornale o addirittura il paese perché la libera informazione non è ammessa da chi controlla il territorio, si deve temere per la propria incolumità perché cerca di informare la popolazione sulla violenza quotidiana che si abbatte sulla sua vita, in un conflitto così tanto pericoloso da impedire alla stampa internazionale di riferirne con regolarità. Da anni Amnesty International denuncia il sistematico tentativo di soffocare il giornalismo indipendente. Un rapporto del 2008, "Somalia: giornalisti sotto attacco", documentava intimidazioni, attacchi, minacce e uccisioni da parte dei gruppi armati e delle forze governative allo scopo di controllare e manipolare la diffusione di notizie sul conflitto.
Nel recente rapporto "Notizie difficili: le vite dei giornalisti in pericolo in Somalia", Amnesty International ha raccontato le storie di chi ha perso la vita per garantire il diritto all'informazione e denunciato la grave e costante minaccia rappresentata dai gruppi armati ma anche il giro di vite del governo sulla stampa con una vera e propria campagna di persecuzioni e intimidazioni che, da giugno 2010, ha portato ad arresti e interrogatori di diversi giornalisti. Amnesty International chiede al governo e ai gruppi armati d'opposizione di rispettare la libertà di espressione e il diritto alla vita dei giornalisti somali, di indagare su attacchi e persecuzioni di giornalisti posti in essere da tutte le parti in conflitto, tanto dai gruppi armati d'opposizione quanto da forze governative. (Amnesty International news)

martedì 3 agosto 2010

CASO ENRICHETTO E LO STATO VIGLIACCO

Vorrei che leggeste l’articolo di Massimo Gramellini sulla Stampa di oggi:
Enrichetto ha 55 anni e un cuore di bambino. Gira in bicicletta, estate e inverno, nascosto sotto un cappello con la coda che i bambini veri si divertono a tirare. Un giorno in cui pedala troppo a zig-zag viene fermato per guida in stato di ebbrezza. Due mesi agli arresti domiciliari, come uno della Cricca. Enrichetto. A lui sta persino bene, basta non gli tolgano il suo cane e il suo cappello. Una mattina si alza con la voglia di un salame. Ricorda di averlo visto nella vetrina del macellaio, prima del suo arresto, chissà se c’è ancora. Esce per andare a controllare. Una vicina che si è autoassegnata l’incarico di fare la guardia lo intercetta attraverso lo spioncino e avverte i carabinieri. Allarme, il prigioniero è evaso! Enrichetto torna a casa col salame, tutto contento, ma sulla porta trova le guardie. Adesso giace nell’infermeria del carcere astigiano di Quarto. Rifiuta il cibo, come chi si sta lasciando morire. La sua non è una protesta. E’ che gli è venuta la malinconia. Sa che a settembre lo condanneranno per evasione e a lui non sembra giusto, ecco. Tutto perché una volta è salito in bici un po’ brillo e un’altra volta è uscito di casa per comprare un salame. Per favore, Enrichetto, ricomincia a mangiare. Ti prometto che un giorno instaureremo la repubblica del buonsenso, dove le leggi non saranno più il trastullo dei potenti e la trappola dei semplici. E se nel frattempo qualche magistrato chiudesse un occhio sui tuoi efferati delitti, a casa ci sono un cane, un cappello e un salame che ti aspettano per festeggiare.
Non è possibile ignorare il fatto che le carceri italiane siano piene di persone come ‘Enrichetto’. E che invece uomini potenti e importanti, che hanno commesso reati gravi, riescano sempre a scamparla. Una palese ingiustizia di uno Stato che non sempre riesce ad essere equo e giusto. Lo Stato italiano da troppo tempo è forte con i deboli e debole con i forti. I reati dei grandi poteri finanziari raramente vengono puniti. Anzi mai. Finanzieri, politici e colletti bianchi la fanno franca, anche se hanno gettato sul lastrico migliaia di famiglie o hanno disonorato il loro Paese. Mentre Bernard Madoff negli Stati Uniti è stato condannato a 150 anni di carcere, Calisto Tanzi, in Italia, fa una vita normale e si gode le sue ricchezze. Alla faccia delle famiglie che hanno perso tutto per le spericolate operazioni che hanno portato al crack Parmalat. La depenalizzazione del reato di falso in bilancio è un’anomalia italiana che ha, di fatto, aperto la strada all’impunità per i reati dei colletti bianchi. I tempi lunghissimi della nostra giustizia, poi, fanno il resto. E mentre un poveraccio come Enrichetto rischia la morte in carcere per un salamino, gente come Balducci, il detenuto Balducci, capo della presunta cricca, se la spassa agli arresti domiciliari nella sua villa con piscina a Montepulciano. Questa è l’Italia di Berlusconi. Questa è l’Italia che si deve cambiare. La qualità, la forza l’autorevolezza di una democrazia si dimostrano anche dalla capacità di essere più severi con chi, da ruoli di potere, è chiamato a maggiori responsabilità. Un paese davvero democratico deve avere il coraggio di sbattere in galera i delinquenti della cricca e magari di gettare via la chiave, ma è un atto di vigliaccheria tenere in carcere gente come Enrichetto. O anche come le migliaia di tossicodipendenti (non gli spacciatori naturalmente) di cui sono pieni gli istituti penitenziari. Uno Stato giusto queste persone le manderebbe a curarsi, non le chiuderebbe dietro le sbarre. Non vogliamo lo Stato di Berlusconi, non vogliamo più uno Stato vigliacco e ingiusto. E continueremo a batterci per cambiarlo.

domenica 1 agosto 2010

Sommossa gitana in Francia

PER RACCONTARE, anche se solo in parte, quello che sta accadendo in queste ore in Francia utilizzerò -oltre a tante eloquentissime immagine- due articoli di Paolo Persichetti usciti su Liberazione in questi giorni.Una vera e propria rivolta dei rom abitanti in Francia: esasperati da un atteggiamento generale contro di loro che si sta facendo sempre più violento. Un razzismo latente che appare palese nelle dichiarazioni del presidente della repubblica francese e nel modo di muoversi delle forze dell’ordine nelle periferie e nei quartieri più “colorati” .Stavolta la repressione è e sarà pesante: una vera e propria sommossa non sarà accettata dagli apparati di Stato e già Sarkozy inizia a parlare di revoca di cittadinanza per chi commette reati.
Près de 300 militaires sont déployés autour de Saint-Aignan (Loir-et-Cher) dont la gendarmerie a été attaquée dimanche par des membres de la communauté de gens du voyage pour protester contre la mort d'un des leurs.
In Francia le uniche Gitanes ammesse saranno d’ora in poi soltanto le sigarette. Non ha detto proprio così il presidente della repubblica Sarkozy ma il senso delle severe misure repressive decise dal consiglio dei ministri mercoledì scorso non si discosta molto da questa radicale soluzione. Niente più nomadi Rom e Sinti in situazione irregolare. Il governo francese intende smantellare più della metà dei 300 campi, considerati illegali, installati nel Paese dalle Gens du voyage, come vengono chiamati le popolazioni nomadi da quelle parti. Il ministro degli Interni, Brice Hortefeux, ha annunciato che le autorità procederanno parallelamente all’espulsione con ricondotta «quasi immediata» in Romania e Bulgaria dei nomadi che avrebbero commesso azioni contro l’ordine pubblico. Una volta tanto gli “Zingari” si ritrovano messi all’indice non per essere sospettati di aver commesso furti e ruberie, oppure per aver messo in piedi un sistema organizzato di accattonaggio insieme a traffici vari o, peggio ancora, come narrano inossidabili leggende metropolitane, per aver «rubato bambini».
Dopo la sommossa, AFP PHOTO ALAIN JOCARD
No, stavolta contro i nomadi ricade un’accusa che ha l’odore sulfureo della perdizione politica, qualcosa che ormai per le culture statuali rasenta l’anticamera del terrorismo. I Rom sono colpevoli di essersi ribellati. Nella notte tra il 17 e il 18 luglio scorso hanno dato vita ad una sommossa nel villaggio di Saint-Aignan, 3500 anime perdute nelle campagne del Loir-et-Cher, dipartimento situato nel centro della Francia. La dinamica dei fatti è identica alla gran parte delle altre rivolte che si sono svolte negli ultimi decenni nelle banlieues delle maggiori metropoli francesi. Prima l’aria diventa satura di rabbia. La comunità gitana sente montare sulle proprie spalle un clima di stigmatizzazione che si traduce in atteggiamenti sempre più oppressivi e vessatori da parte delle forze dell’ordine a cui le autorità hanno dato briglia sciolta. Quindi scatta l’innesco che provoca l’esplosione di rivolta. In genere un episodio cruento in cui sono coinvolte le forze di polizia, come fu per Cliché-sous-bois dove trovarono la morte Zyed e Bouna, due adolescenti di 15 e 17 anni fulminati dalla scarica elettrica di una centralina dietro la quale si erano riparati dopo esser fuggiti dalle mani di alcuni poliziotti che li rincorrevano solo perché erano in strada. Un classico è l’intoppo ad un posto di blocco, come è accaduto ancora una volta poche settimane fa a Grenoble. In questi casi la versione dei fatti fornita dalle autorità e quella riportata dalle popolazioni locali appaiono ogni volta diametralmente opposte. In quest’ultima vicenda la gendarmeria riferisce un tentativo di sfondamento di un posto di blocco che avrebbe messo a rischio la vita dei militari, i quali avrebbero così sparato per legittima difesa uccidendo uno dei passeggeri. Il giovane deceduto apparteneva alla comunità nomade del posto, si chiamava Luigi e aveva solo 22 anni. Ovviamente chi era al suo fianco a bordo di una sgangherata R19 con 300mila chilometri nel motore, il cugino Miguel Duquenet consegnatosi più tardi alle autorità, ha riportato una versione completamente diversa, denunciando addirittura un’esecuzione a freddo da parte dei gendarmi, con modalità da vero e proprio «agguato». I militi infatti erano in borghese, assolutamente non identificabili, spuntati all’improvviso dal buio. L’episodio ha scatenato una rivolta senza precedenti nella tradizione gitana. Due caserme della gendarmeria prese d’assalto a colpi d’ascia e barre di ferro da una cinquantina di nomadi infuriati, alberi sradicati, vetture incendiate, semafori e arredo urbano distrutto, una panetteria saccheggiata. Notevoli i danni materiali ma nessun ferito da registrare. Inammissibile per il governo.
AFP PHOTO ALAIN JOCARD
Se anche i nomadi hanno imparato a ribellarsi la situazione diventa davvero pericolosa. E allora cacciamoli tutti anche se vivono in Francia da decenni. Da qui il via allo smantellamento dei campi improvvisati «entro i prossimi tre mesi», come ha spiegato il ministro degli Interni. Una decisione avallata dalla Commissione europea che ieri, attraverso la portavoce della commissaria alla Giustizia e ai diritti, Viviane Reding, ha sottolineato come «le leggi europee sulla libera circolazione dei cittadini forniscono il diritto agli Stati membri di controllare il loro territorio e lottare contro la criminalità». La soluzione è semplice, basta criminalizzare l’intera comunità.___P.P. 30 luglio 2010____
«La nazionalità francese deve poter essere ritirata a tutte le persone di origine straniera che hanno volontariamente attentato alla vita di un poliziotto o di chiunque altro rappresenti l’autorità pubblica». E’ la proposta choc lanciata ieri da Nicolas Sarkozy durante la cerimonia d’insediamento del nuovo prefetto dell’Isère incaricato di riportare l’ordine dopo le settimane di violenze urbane che hanno contrapposto giovani della banlieue di Grenoble alle forze dell’ordine.
«Non dobbiamo esitare a rivedere le condizioni per ottenere il diritto ad acquisire la cittadinanza francese», ha dichiarato ancora il presidente francese, spiegando che «dovremmo avere il coraggio di togliere la nazionalità a quelle persone nate all’estero che abbiano intenzionalmente cercato di uccidere un agente di polizia, un gendarme o qualunque altro rappresentante dell’autorità pubblica». L’inquilino dell’Eliseo ha poi ulteriormente rincarato la dose con un’altra proposta: per i minori nati in Francia da genitori stranieri una volta raggiunti i 18 anni l’acquisizione della nazionalità non deve essere più un diritto, qualora questi commettano dei crimini. Accompagnato dalla ministra della Giustizia Alliot-Marie e dal responsabile dell’Interno Hortefeux (condannato pochi mesi fa per aver pronunciato frasi razziste contro un militante d’origine araba del suo stesso partito), Sarkozy ha nuovamente sfoderato la retorica sicuritaria. Nomadi e giovani delle periferie sono diventati così i capri espiatori dopo lo scandalo suscitato dall’inchiesta giudiziaria sui finanziamenti illegali che il candidato presidenziale avrebbe ricevuto durante la campagna elettorale dalla vedova Bettencourt, la ricca ereditiera della L’Oréal nota per le sue simpatie fasciste. Per risalire la china Sarkozy sta ripescando tutti gli argomenti contro la delinquenza che gli erano valsi la vittoria nelle presidenziali del 2007. Discorsi muscolari e annunci roboanti per invocare il pugno di ferro contro le periferie, gli stranieri, le popolazioni nomadi. La questione sociale, l’irrisolto disagio delle periferie, la disoccupazione (per gli stranieri non comunitari siamo ad un tasso del 24%, cioè il doppio della media nazionale), il fallimento dell’integrazione, l’esplosione degli identarismi comunitari, si riassumono in un’unica dimensione criminale, un fatto d’ordine pubblico, un problema che chiama in causa solo l’intervento delle forze di polizia. Non a caso a riportare l’ordine a La Villeneuve, quartiere sensibile della periferia di Grenoble teatro di una sommossa, è stato chiamato il prefetto Eric Le Douaron, una lunga carriera nella polizia fino a divenire nel 1999 direttore generale della pubblica sicurezza. Sotto la sua gestione entrò in funzione la nuova figura del “poliziotto di quartiere”. Il presidente ha infine concluso il suo discorso attaccando i «troppi diritti» conferiti alle persone straniere in situazione irregolare, auspicando la revisione delle prestazioni a cui hanno accesso. In poche parole Sarkozy mira a smantellare l’assistenza medica universale e magari, perché no, anche le mense per poveri.
«Non dobbiamo esitare a rivedere le condizioni per ottenere il diritto ad acquisire la cittadinanza francese», ha dichiarato ancora il presidente francese, spiegando che «dovremmo avere il coraggio di togliere la nazionalità a quelle persone nate all’estero che abbiano intenzionalmente cercato di uccidere un agente di polizia, un gendarme o qualunque altro rappresentante dell’autorità pubblica». L’inquilino dell’Eliseo ha poi ulteriormente rincarato la dose con un’altra proposta: per i minori nati in Francia da genitori stranieri una volta raggiunti i 18 anni l’acquisizione della nazionalità non deve essere più un diritto, qualora questi commettano dei crimini. Accompagnato dalla ministra della Giustizia Alliot-Marie e dal responsabile dell’Interno Hortefeux (condannato pochi mesi fa per aver pronunciato frasi razziste contro un militante d’origine araba del suo stesso partito), Sarkozy ha nuovamente sfoderato la retorica sicuritaria. Nomadi e giovani delle periferie sono diventati così i capri espiatori dopo lo scandalo suscitato dall’inchiesta giudiziaria sui finanziamenti illegali che il candidato presidenziale avrebbe ricevuto durante la campagna elettorale dalla vedova Bettencourt, la ricca ereditiera della L’Oréal nota per le sue simpatie fasciste. Per risalire la china Sarkozy sta ripescando tutti gli argomenti contro la delinquenza che gli erano valsi la vittoria nelle presidenziali del 2007. Discorsi muscolari e annunci roboanti per invocare il pugno di ferro contro le periferie, gli stranieri, le popolazioni nomadi. La questione sociale, l’irrisolto disagio delle periferie, la disoccupazione (per gli stranieri non comunitari siamo ad un tasso del 24%, cioè il doppio della media nazionale), il fallimento dell’integrazione, l’esplosione degli identarismi comunitari, si riassumono in un’unica dimensione criminale, un fatto d’ordine pubblico, un problema che chiama in causa solo l’intervento delle forze di polizia. Non a caso a riportare l’ordine a La Villeneuve, quartiere sensibile della periferia di Grenoble teatro di una sommossa, è stato chiamato il prefetto Eric Le Douaron, una lunga carriera nella polizia fino a divenire nel 1999 direttore generale della pubblica sicurezza. Sotto la sua gestione entrò in funzione la nuova figura del “poliziotto di quartiere”. Il presidente ha infine concluso il suo discorso attaccando i «troppi diritti» conferiti alle persone straniere in situazione irregolare, auspicando la revisione delle prestazioni a cui hanno accesso. In poche parole Sarkozy mira a smantellare l’assistenza medica universale e magari, perché no, anche le mense per poveri.
Fonte: http://baruda.net/2010/07/31/sommossa-gitana-in-francia/